Libano misterioso

di Dario Rivolta

Se qualcuno volesse capire qualcosa del Medio Oriente, dovrebbe cominciare dal decifrare cosa sia il Libano. Perfino per noi italiani, abituati al cinismo della nostra politica, non è facile capire come quel piccolo Stato riesca a sopravvivere in mezzo a costanti cambiamenti di fronte dei suoi partiti e alle enormi influenze che gli Stati stranieri vi esercitano. Sarà per l’eterogenea composizione etnica, sarà per l’eccezionale capacità negoziale e commerciale dei suoi abitanti, o forse sarà perché le due ragioni precedenti gli hanno attribuito l’immagine di “Svizzera del Medio Oriente”. Il fatto è che da moltissimi anni vi si combattono guerre per procura, a volte palesi e a volte sotterranee, ma nessuno dei pur lontani protagonisti vuole rinunciare a imporre un proprio ruolo dominante.
Pur essendo considerato genericamente un Paese democratico, le precedenti elezioni parlamentari si erano tenute nel 2009 e le successive soltanto quest’anno, cioè quasi un decennio dopo. La loro naturale scadenza sarebbe stata nel 2013 ma inizialmente furono posticipate al 2014 e poi addirittura al 2017. Nel giugno di quell’anno, anziché andare al voto, ci si è accordati per una nuova legge elettorale e infine si è votato soltanto nello scorso maggio. Nel frattempo diversi governi si sono succeduti e il presidente, con l’uscente scaduto nel 2014, è stato eletto soltanto nel 2016. Nonostante il nuovo sistema elettorale sia di tipo proporzionale con una soglia di sbarramento del 10%, i seggi sono ancora assegnati in base all’appartenenza religiosa dei candidati.

Michel Aoun.

Le comunità confessionali nel Paese sono diciotto e a tutte loro è riconosciuto un ruolo politico in proporzione al numero dei fedeli. Le maggiori cariche dello Stato si dividono tra le tre religioni che ufficialmente ne vantano il maggior numero: il presidente della Repubblica deve essere un cristiano maronita, il primo ministro un musulmano sunnita e il Parlamento deve essere preseduto da un musulmano sciita. Poiché l’accordo costituzionale fu fatto alla fine della guerra civile, nel 1989, il peso accordato a ogni comunità religiosa si riferisce ai numeri presunti esistenti in quel momento. E’ questa la principale ragione per non avere mai riconosciuto la cittadinanza ai circa 175mila rifugiati palestinesi (qualcuno li stima in più di 400mila) che pure vivono stabilmente in Libano da vari decenni. Essendo la maggior parte di loro musulmani sunniti, il farli diventare cittadini libanesi a tutti gli effetti avrebbe scombussolato gli equilibri tra le varie comunità, con il sicuro ritorno a una nuova conflittualità politica interna.
Dal punto di vista economico le cifre dicono che il Paese si trova da molti anni sull’orlo del baratro. Nonostante che girando per Beirut non si vedano segnali di miseria diffusa, il debito pubblico è attorno al 150% del prodotto interno lordo e il deficit di bilancio rappresenta il 120% di quest’ultimo. Anche il debito privato è oramai fuori controllo e nessuno immagina come potrebbe risolversi. In una situazione già critica, ai meno di sei milioni di abitanti autoctoni e ai rifugiati palestinesi si sono aggiunti circa un milione di siriani scappati alla guerra nel loro Paese e alcune migliaia di iracheni. Il problema non è il loro mantenimento, garantito in buona parte dalla comunità internazionale, bensì il fatto che molti di loro occupano posti di lavoro in modo non ufficiale, mettendo così fuori gioco gran parte della manovalanza locale. Anche la corruzione tra privati e tra i pubblici ufficiali, così come l’economia sommersa sono diffusissimi, tanto che il Paese è classificato centoquarantatreesimo su centottanta per l’indice mondiale della corruzione.
Oggettivamente il libanese qualunque non ama i siriani e tantomeno la tutela che Damasco esercita sul loro Paese. Tuttavia Hezbollah, il gruppo islamico sciita che riceve aiuti da Teheran ed è giudicato come terrorista da americani e sauditi, ha stretti rapporti con la Siria attraverso la quale può ricevere armi e aiuti dagli iraniani. Dopo aver formato un suo partito, è entrato nei vari governi esercitandovi un ruolo dominante anche come maggiore (e più pericoloso) nemico locale di Israele.
Tutti i partiti si dividono tra loro come oppositori o amici della Siria ma i rispettivi fronti sono sempre in movimento e passano da un’ostilità manifesta a un dialogo giudicato “necessario” o viceversa. Ne è un esempio il partito dell’attuale presidente Aoun, il Movimento Patriottico Libero (FPM). Partito su posizioni autonomiste e anti-islamiche, qualche anno fa l’ex Generale ha cambiato posizione e la sua recente elezione è stata frutto della sua alleanza con Hezbollah. Anche il partito del primo ministro Saad Hariri, in un primo momento capofila degli anti-siriani tanto da aver dato vita alla coalizione “14 marzo”, ha poi accettato di sostenere l’elezione di Aoun in cambio della sua quarta conferma al ruolo di primo .inistro. Il suo voltafaccia, giustificato con la necessità di “sbloccare” la stasi politica non è stata ben vista dai suoi sponsor sauditi che hanno annunciato la fine di ogni aiuto economico e invitato, ufficialmente per motivi di sicurezza, tutti i propri cittadini a evitare di recarsi in Libano. Lo stesso fecero i sodali dei sauditi, gli Emirati Arabi uniti e il Bahrein. Durante l’ultima visita di Hariri a Riad, il primo ministro ha annunciato le proprie dimissioni con l’intento di causare una crisi di governo e l’estromissione di Hezbollah dalla maggioranza. Passati pochi giorni fu però invitato a Parigi e da li ritirò le dimissioni, rientrando a Beirut come se niente fosse successo.
Un maestro del cambio di fronte è il leader del partito dei Drusi (una setta sincretica islamica – sciita, cristiana, induista e giudaica, diffusa tra i membri di una storica etnia localizzata nel sud libanese e precisamente sulle alture del Chouf), tale Walid Jumblatt. Costui è abbastanza conosciuto in Italia (ove viene con una certa continuità) grazie alla sua relazione amorosa con Carmen Llera Moravia che ne scrisse diffusamente anche in suo libro. Schierato contro i gruppi cristiani nella guerra civile, ha continuato poi ad alternare posizioni ferocemente antisiriane ad altre di apertura e di dialogo, dando, togliendo e poi ancora dando sostegno ai vari governi.
Se volessimo, comunque, fare la storia delle giravolte di tutti i leader libanesi passati e presenti non ci basterebbero centinaia di pagine ed è anche per questo che quel piccolo Paese è paradigmatico di cosa sia realmente il Medio Oriente. Basti pensare che anche durante la guerra civile, quando di giorno tutti sparavano a tutti, non era escluso che, la notte, i militanti di fronti avversi si incontrassero e magari bevessero insieme. E occorre ricordare che, nonostante gli scontri, i commerci locali non si arrestarono mai del tutto e il porto di Jounieh (poco a nord di Beirut) continuasse a lavorare quasi come se niente fosse.
Forse nasce proprio da queste contraddizioni il fascino misterioso del paese dei Cedri e il richiamo che ancora attira viaggiatori da ogni parte del mondo (a proposito, i famosi “cedri del Libano” sono praticamente scomparsi in quel territorio e i pochissimi rimasti sono indicati a dito come memoria di un tempo che fu).

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.