di Enrico Oliari

Aerei statunitensi hanno bombardato due campi dell’Isis in Libia. Le indiscrezioni diffuse in primis dalla Cnn sono state poi confermate dal portavoce del Pentagono, Peter Cook, il quale ha riferito in conferenza stampa che sono stati “distrutti due campi dello Stato islamico (Isis) a 45 chilometri a Sud-Ovest di Sirte”. Ha inoltre aggiunto che “tra i terroristi dell’Isis obiettivo dell’attacco figurano anche individui fuggiti da Sirte ed entrati nei campi situati in zone remote nel deserto con l’intento di riorganizzarsi, ponendo quindi una minaccia alla sicurezza della Libia, della regione e degli interessi nazionali americani”.
Cook ha poi spiegato che, “per quanto siano ancora in corso le dovute valutazioni, le prime informazioni indicano l’attacco è andato a segno. Questa azione è stata autorizzata dal presidente (Fayez al-Serraj, ndr) come proseguimento dell’operazione di successo condotta dall’esercito Usa lo scorso anno a sostegno delle forze libiche impegnate nella liberazione di Sirte dall’Isis”.
“Siamo impegnati – ha concluso – a mantenere la pressione sull’Isis e ad evitare che creino un covo sicuro. Questi attacchi limiteranno le capacità dell’Isis di lanciare attacchi contro le forze libiche e i civili impegnati a stabilizzare Sirte, e dimostrano la nostra risolutezza nel contrastare la minaccia posta dall’Isis alla Libia, agli Stati Uniti e ai nostri alleati”.
Sul fronte “di Tobruk” c’è da registrare la dura reazione alla disponibilità dell’Italia, offerta dal ministro degli Esteri Angelino Alfano, ad inviare “medicinali e aiuti urgenti” nell’est della Libia.
Khalifa al-Obaidi , portavoce dell’esercito nazionale libico, cioè quello guidato dal generale Khalifa Haftar, ha fatto sapere che “Rifiutiamo qualsiasi aiuto italiano a meno che l’Italia ritiri le sue truppe dalla Libia”.
In realtà Haftar sta sfruttando nella sua dialettica l’avversione alla presenza di poche centinaia di militari italiani nell’ovest del paese a fini puramente politici, ovvero di coinvolgere a suo sostegno la Russia.
In settembre il suo inviato a Mosca aveva chiesto alla Russia di togliere l’embargo alla fornitura di armi e di “avviare un’operazione militare anti-islamista (con riferimento alle formazioni che partecipano al governo “di Tripoli”, ndr) sul modello della Siria.
Una settimana fa Haftar si era recato sulla portaerei russa Admiral Kuznetsov, di rientro dalla Siria, ed a Mosca aveva promesso una base in Cirenaica in cambio di forniture e di un appoggio militare.
Tuttavia è palese che la presenza di italiani in Libia (in realtà vi sono anche francesi ed egiziani a Tobruk e britannici e statunitensi a Tripoli) non piace se non al debolissimo governo di Fayez al-Serraj, frutto delle mediazioni Onu e riconosciuto dalla comunità internazionale, tanto che il precedente presidente “di Tripoli”, Khalifa al-Ghweil, ha condannato a suo tempo “la visita del capo di stato maggiore Claudio Graziano” e chiesto che “i militari italiani lascino Misurata”, dove presidiano un ospedale da campo italiano nell’ambito dell’operazione Ippocrate. Haftar aveva risposto all’apertura dell’ambasciata italiana a Tripoli, il 10 gennaio, parlando di “nuova occupazione”.
Tanto basta per riscaldare gli animi in un sentimento anti-italiano, utile per giustificare all’opinione pubblica interna il suo interessamento per Mosca.
Ed elgornal.net, portale di informazione, ha riportato che la Russia sarebbe pronta a fornire armi ad Haftar per circa due miliardi di dollari, rifacendosi ad un contratto stilato nel 2008 con il colonnello Muammar Gheddafi e riesumato in occasione della visita sulla Kuznetsov.
La figura di Haftar, capo dell’esercito del governo non riconosciuto di Tobruk (per quanto frutto delle elezioni del 2014) è uno degli elementi che rende difficile il ricongiungimento delle parti in lotta, anche perché nel governo riconosciuto di Tripoli, uscito dalle mediazioni Onu prima di Bernardino Leon e poi di Martin Kobler, vi sono numerose milizie anche islamiste che non vogliono avere a che fare con lui. Il generale avrebbe voluto essere nominato ministro della Guerra nel governo di unità nazionale, ma i suoi detrattori accusano il generale di essere stato al soldo di Washington in quanto, fatto prigioniero nel 1987 dall’esercito ciadiano in occasione della “Guerra delle Toyota”, è stato poi prelevato dalla Cia e portato negli Usa, dove vi è rimasto fino al 2011 per ricomparire in Libia a comandare la piazza di Bengasi nell’insurrezione che ha portato alla deposizione di Muammar Gheddafi.