L’inquinamento batte il Covid. Studio di Harvard, ‘10,2 milioni di morti premature’

di C. Alessandro Maceri –

La pandemia da Covid-19 ha distratto l’attenzione di molti da altre cause di morte. Anche quando queste sono molti di più letali del coronavirus e soprattutto evitabili, se solo lo si volesse.
Non è una novità che una delle principali cause di morte non naturale è l’inquinamento atmosferico. Emissioni di CO2 e microparticolato sono oggetto di discussione da anni, ma poche sono le azioni intraprese dai governi mondiali. Inutili palliativi o di strategie di marketing ambientalista, come la decisione di molti paesi di limitare entro il 2025 la circolazione alle auto con classe di emissioni Euro7 praticamente alimentate completamente a energia elettrica: una misura inutile dato che la maggior parte dell’energia elettrica ancora oggi viene prodotta mediante l’uso di combustibili fossili.
L’utilizzo di queste sostanze inquinanti ha un impatto rilevante sulla salute delle persone. Peggiore anche di quello dell’ormai famoso coronavirus. A confermarlo un recente studio realizzato dagli scienziati dell’Università di Harvard in collaborazione con UCL, University College of London, Università di Birmingham e Università di Leicester, e pubblicata sulla rivista Environment Research, sulla “mortalità globale dall’inquinamento all’aria aperta da particolato generato da combustione fossile”: ogni anno una persona su 5 muore per colpa dell’inquinamento dovuto alla combustione di carburanti fossili (carbone, benzina e gasolio, in primis), una percentuale molto più alta di quanto si pensava. A livello globale “10,2 milioni di morti premature ogni anno sono attribuibili alla componente dei combustibili fossili del particolato aerodisperso”. “La combustione produce particelle sottili cariche di tossine che sono abbastanza piccole da penetrare in profondità nei polmoni. I rischi derivanti dall’inalazione di queste particelle, note come PM2.5, sono ben documentati” ha detto la coautrice e professoressa associata dell’UCL Eloise Marais.
Si tratta di numeri ben maggiori di quelli legati alla pandemia di Covid-19, che si aggirano ad oggi sui 2,65 milioni di morti.
Dall’analisi emergono anche gli errori-orrori commessi nel recente passato legati alle limitazioni delle emissioni. Aver concesso, come è stato fatto anche con gli accordi di Parigi del 2016), ai paesi in via di sviluppo un lasso di tempo più ampio per ridurre la propria quantità di emissioni agli standard imposti ai paesi sviluppati, ha avuto conseguenze mortali. Secondo i ricercatori, il maggior numero di morti dovuti a PM2,5 si registrano proprio nei paesi in via di sviluppo: in Cina (3,9 milioni di morti), in India (2,5 milioni) e nel Sud-est asiatico. Anche il numero dei morti nei paesi “sviluppati” come Stati Uniti e Europa, è elevatissimo .
A consentire di raggiungere questi risultati è stata la metodologia adottata dai ricercatori. Finora, per stimare le concentrazioni medie annuali globali di particelle atmosferiche PM2.5, la maggior parte delle ricerche erano basate su osservazioni satellitari e di superficie. Queste però non sempre permettevano di distinguere tra particelle prodotte dai combustibili fossili o dal fumo di incendi o da altre fonti. Il nuovo studio invece si basa su GEOS-Chem, un modello 3D globale di chimica atmosferica che consente una risoluzione spaziale molto più elevata. La Terra è stata divisa in riquadri di dimensioni 50 km x 60 km per ciascuno dei quali sono stati rilevati i livelli di inquinamento. I risultati sono stati quindi confrontati con le emissioni divise per fonte quale energia, industria, navi, aerei e trasporti terrestri. Quindi sono stati messi in relazione con gli effetti sulla salute umana. “Invece di fare affidamento su medie diffuse in grandi regioni, volevamo mappare dove si trova l’inquinamento e dove le persone vivono, volevamo sapere più esattamente cosa respirano le persone” ha aggiunto Karn Vohra, studente laureato dell’Università di Birmingham e primo autore dello studio.
Il risultato è stato sorprendente. A livello globale nel 2012 l’esposizione al particolato derivante dalle emissioni di combustibili fossili era causa del 21,5% dei decessi totali, ma ancora nel 2018 era sceso solo al 18%. Oggi il numero di persone che muoiono di PM2.5 delle vittime supera il totale complessivo delle persone che muoiono per tabagismo o per la malaria.
A questo si aggiunge un altro aspetto geopolitico e tutt’altro che secondario. Gli effetti del Covid-19 non sono facilmente controllabili. Al contrario secondo i ricercatori, senza emissioni di combustibili fossili è possibile evitare la morte di milioni di persone ogni anno. Ma non basta. Ridurre l’uso di combustibili fossili produrrebbe un sensibile aumento dell’aspettativa di vita media della popolazione mondiale di oltre un anno. E potrebbe far diminuire i costi economici e sanitari globali di circa 2,9 trilioni di dollari.
Ora non ci sono più dubbi. E non ci sono più scuse per i governi per adottare scelte davvero rispettose della salute umana e dell’ambiente. Ad esempio mediante il ricorso a fonti realmente rinnovabili. Ma anche uscire dall’incongruenza della proclamazione di New Green Deal e di politiche ambientaliste mentre si finanziano gasdotti e si consente di “compensare” le emissioni.