Lo Xinjiang e la frontiera dell’identità

di Mara Fiorentini

L’evoluzione della Cina, da un “secolo di umiliazione” a superpotenza.
Abdureqip Tomurniyaz, dirigente dell’associazione e della scuola per gli studi Islamici nello Xinjiang, durante un ricevimento del governo cinese tenutosi il 13 maggio 2021 a Pechino, ha dichiarato che “(the United States and other Western nations) want to sabotage Xinjiang’s harmony and stability, contain China’s rise and alienate relations between China and Islamic countries” (1). Questa affermazione è esemplificativa di tutti i punti fondamentali che saranno oggetto di questa ricerca, come la collaborazione tra la civiltà islamica e quella sinica, lo scontro della Cina con l’occidente, l’ostilità e la paranoia che il gigante asiatico prova nei confronti degli Stati Uniti e la volontà cinese di espandersi ed imporre la propria supremazia a livello globale. Tutti questi temi sono connessi alla regione autonoma dello Xinjiang e alle politicherepressive che la Cina sta attuando nei confronti della popolazione uigura, che non possono essere dovute all’islamofobia o alla semplice paura del diverso. L’attuale scontro di faglia (2) tra l’etnia degli Uiguri e quella prevalente degli Han era, infatti, uno scontro ineluttabile, che trova le sue radici nella particolare conformazione geografica della Cina, nella sua posizione in Asia e nella storia del suo millenario impero.
Per questi motivi, prima di parlare dell’attuale significato geopolitico dei campi di rieducazione nello Xinjiang, è indispensabile comprendere come la caduta dell’Impero Cinese e la conseguente oppressione coloniale che la Cina ha subito nel corso del XIX secolo abbiano influenzato le attuali politiche interne ed estere della RPC e come l’eredità di questa storia fatta di cadute rovinose e di rinascite miracolose, si ripercuota sulla minoranza degli Uiguri.
La Repubblica Popolare Cinese (RPC) è lo Stato più vasto all’Asia Orientale e si estende dall’Oceano Pacifico fino all’Asia Centrale. Questa posizione chiave all’interno del continente asiatico permise alle aree costiere del Paese di beneficiare, durante l’era Ming (1368-1644), di numerosi rapporti commerciali con vari Imperi europei. Partner privilegiato per il commercio fu sicuramente l’Impero Britannico, prossimo alla Cina per via del possedimento indiano e forte importatore di tè, seta e porcellana. Le relazioni commerciali sino-britanniche erano particolarmente proficue per l’Impero Cinese, non solo perché accettava unicamente pagamenti inargento, ma anche perché, limitando il commercio alla sola città di Guangzhou, controllava sia il sistema dei prezzi che le importazioni e le esportazioni (c.d. sistema di Canton) (3). L’impero Britannico invece non traeva grandi vantaggi da questi scambi di merci, visto che l’export era limitato e per commerciare doveva acquistare argento da altre nazioni. Così, nel 1839, dopo numerosi dissidi commerciali tra i due Paesi dovuti al sistema di Canton, in seguito all’importazione britannica di oppio in Cina e alle conseguenti misure restrittive applicate sul commercio di droga per l’esplosione della piaga della tossicodipendenza, scoppiò la Prima guerra dell’oppio tra i due Imperi (1839-1842). La guerra si concluse con la vittoria inglese ed il trattato di Nanchino, che prevedeva l’apertura di cinque porti per il commercio internazionale, il libero commercio dell’oppio e la rinuncia cinese all’isola di Hong Kong. A quattordici anni dalla firma del trattato, scoppiò la seconda guerra dell’oppio (1856-1860), a cui presero parte anche Francia, Russia e Stati Uniti. La guerra si concluse nuovamente con la sconfitta cinese e la definitiva caduta del Celeste Impero.
La Cina passò così da grande potenza, superba e talvolta sprezzante nei confronti degli altri popoli, a territorio colonizzato, governato e oppresso dagli Stati occidentali tramite la presenza di imperatori fantoccio. Per queste ragioni, il periodo intercorso tra il 1839 e il 1949 fu definito dagli stessi cinesi come il “secolo dell’umiliazione”, un’era oscura in cui prima la sottomissione della dinastia Qing al volere dell’Occidente e, in seguito, l’asservimento della Repubblica di Cina all’Impero Giapponese fecero perdere completamente al Celeste Impero il suo antico prestigio. Questo tracollo spinse studiosi ed esperti dell’epoca a mettere in discussione l’efficacia dei propri metodi bellici, del sistema imperiale autocratico e persino delle tradizionali norme confuciane, che per millenni erano state cuore e forza motrice del “Regno di mezzo” (4). Il politologo Zheng Wang evidenzia come questo periodo di oppressione abbia avuto anche conseguenze psicologiche per il Paese, instillando all’interno della psiche nazionale una sorta di “mentalità da vittima” (5). Tutto ciò si riflette nelle attuali strategie geopolitiche cinesi e aiuta a comprendere meglio i movimenti della Cina nello scenario politico internazionale. Se infatti da un lato la Cina, con atteggiamento paranoico e tendente al vittimismo, mira a difendere la propria sicurezza nazionale in senso tradizionale, dall’altro lato, mossa da desiderio di rivalsa, aspira ad imporsi come grande superpotenza all’interno dello scacchiere internazionale.
La fine del secolo di umiliazione e l’inizio di una nuova era di benessere, coincisero con la fondazione, nel 1949, della Repubblica Popolare Cinese. La politiche di Mao, profondamente segnate dalla c.d. “mentalità da vittima”, furono fin da subito improntate alla ricerca della sicurezza nazionale e all’ampliamento della propria sfera d’influenza internazionale. Tra i vari strumenti utilizzati per il consolidamento della sicurezza nazionale, il più importante fu sicuramente l’avviamento di un proprio programma nucleare. La Cina era priva dei mezzi tecnologici necessari per lo sviluppo e la realizzazione di armi nucleari, perciò, in un primo momento, si avvalse della collaborazione dell’Unione Sovietica. Sebbene nel 1959 l’URSS decise di interrompere l’accordo di cooperazione nucleare, nel 1964 la RPC riuscì comunque a condurre con successo il primo test atomico (6). La scelta sovietica di non rispettare l’accordo sul nucleare rese la Cina ancora più diffidente nei confronti delle altre potenze. La Cina, infatti, criticò fortemente il trattato sulla messala bando parziale degli esperimenti nucleari del 1963, che descrisse come “un inganno (occidentale) verso i popoli del mondo, un tentativo di consolidare il monopolio di tre potenze nucleari (Stati Uniti, Regno Unito ed Unione Sovietica) e di legare le mani a tutte le nazioni amanti della pace”(7). Nell’ottica di un ampliamento della propria sfera di influenza, invece, la Cina attuò una vera e propria strumentalizzazione delle ideologie, che nel corso della Guerra Fredda furono il principale criterio di aggregazione tra Stati e nazioni. In questo contesto, infatti, la Cina si contrappose non solo al liberismo americano, ma anche al marxismo sovietico ed offrì un’alternativa al bipolarismo della Guerra Fredda, ponendosi, già dalla conferenza di Bandung nel 1955, come leader del movimento dei Paesi non allineati, attraverso il “progetto Terzo Mondo (8)”. Spinta dalla sua rivalità con l’URSS, negli anni ’60 e ’70 la RPC rafforzò perciò i suoi legami con alcuni Paesi del terzo mondo (9). E’ opportuno sottolineare come la Cina, sebbene accusasse l’UnioneSovietica di social-imperialismo, agisse similmente ai suoi antagonisti sovietici, nel tentativo di creare un impero sui generis e diffondere nel mondo un social-imperialismo di stampo cinese (10).
Si può perciò affermare che, nonostante la costante ricerca di sicurezza nazionale e le manie neo-espansionistiche trovino le proprie origini nella caduta dell’Impero e nel famigerato secolo di umiliazione, esse sono in realtà l’eredità che Mao ha lasciato alla Cina odierna. Analogamente a Mao, infatti, che sfruttò sapientemente la pesante eredità lasciata da un trauma collettivo per garantirsi la fedeltà ed il supporto della popolazione (11), anche l’attuale Governo cinese sembra avvalersi di questo passato di oppressione per il raggiungimento dei propri scopi. Emblematica è stata la scelta del presidente cinese Xi Jinping, che, subito dopo il suo insediamento nel 2012, portò i membri del Comitato Permanente del Politburo ad una mostra sul secolo dell’umiliazione, con lo scopo di mostrare cosa si debba evitare e per cosa valga la pena sacrificarsi (12). Il progetto della Via della Seta, come anche le attuali relazioni commerciali tra Cina ed Africa, dimostrano la presenza di una continuità tra la Cina Maoista e quella di Xi. Entrambe, infatti, sono mosse dal mantenimento di sicurezza nazionale, ma soprattutto dal desiderio di rivalsa verso le grandi potenze occidentali. Gli Uiguri nello Xinjiang rappresentano un nuovo capitolo di questa storia millenaria fatta di gloria, umiliazione, cadute e rinascite, l’ennesimo ostacolo che si trova geograficamente al centro di un rinnovato percorso verso il dominio e la grandezza: la nuova Via della Seta.

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Lo Xinjiang: “Nuova Frontiera” o barriera?
La Belt and Road Initiative (BRI), nota anche come Via della Seta, è un progetto che prevede l’apertura di nuovi canali commerciali e la costruzione di diverse infrastrutture, sparse in centri strategici del commercio internazionale.
L’iniziativa è composta da due componenti principali, quella terrestre (Silk Road Economic Belt)e quella marittima (21st Century Maritime Silk Road) e da altre sei direttrici economiche che collegano la Cina a Germania, Turchia, Mongolia, Bangladesh, Singapore e Pakistan.
Secondo alcuni studiosi, la BRI fa parte dell’attuale grand strategy cinese, che mira ad un aumento generale del benessere economico della sua popolazione ed all’affermazione della RPC come superpotenza globale. Il progetto, però, è anche un tentativo di sovvertire l’ordine mondiale stabilitosi dopo gli Accordi di Bretton Woods, e mira ad intaccare il monopolio commerciale degliUSA. Per questo motivo, la BRI può essere vista come un vero e proprio guanto di sfida agli StatiUniti, una mossa geoeconomica e geopolitica che ruota attorno al concetto di Pivot area di Mackinder e di Rimland area di Spykman. La Cina, con la macro direttiva 21st Century Maritime Silk Road, punta a collegare il proprio commercio marittimo con Medio Oriente, Africa ed Europa e ad acquisire influenza nella Rimland area, allo scopo di erodere quella americana nella zona del Pacifico e dell’oceano Indiano. Nell’area, infatti, gli Stati Uniti hanno una forte alleanza con l’India, Stato che non solo è una potenza nucleare, ma che è anche confinante a nord con la Cina. Gli USA, inoltre, hanno ulteriormente rafforzato la propria posizione nella zona indo- pacifica attraverso il partenariato siglato nel 2018 con India, Australia e Giappone, volto al finanziamento dello sviluppo di infrastrutture e reti di comunicazione. La presenza americana nella regione era peraltro molto forte già dall’epoca della Guerra Fredda, periodo in cui gli USA avevano adottato la politica di contenimento di Spykman, che permise loro di disporre di numerose basi militari. Come si evince, la Cina è quindi circondata da una fascia di Paesi pro-Usa, appartenenti all’area del Rimland, che formano la c.d. cintura di strangolamento. Alcuni giornali riportano l’intenzione del governo cinese di difendersi da questo “accerchiamento”, costruendo basi militari nel Mar Cinese Meridionale, nella zona antecedente a quella di strangolamento, e nelle coste orientali ed occidentali africane, spingendosi nel cuore dell’Asia, in particolare in Tagikistan e Pakistan, e dispiegando forze militari nelle aree di competenza della quinta flotta e del comando centrale: Oceano Indiano, Corno d’Africa e Mar arabico. Tuttavia la sfida marittima agli Stati Uniti è ardua e le contromisure cinesi potrebbe non essere sufficienti.
Per le ragioni predette, se la Cina vuole garantirsi il ruolo di prima superpotenza mondiale, è indispensabile che provi ad aumentare il proprio potere terrestre. La Silk Road Economic Belt, che ripercorre gli itinerari delle antiche vie della seta, risponde proprio a questa esigenza. Essa garantirebbe, infatti, alla Cina l’accesso all’area mediterranea ed il controllo commerciale della pivot area mackinderiana. La Via della Seta terrestre ha quindi lo scopo di collegare la Cina alla zona indo- pacifica, al Sud-Est asiatico, all’Africa, alla Russia e all’Europa, creando un nuovo ponte terrestre euro-asiatico. L’accesso all’Heartland è indispensabile per la Cina nel quadro della competizione sino-americana, perché non potendo avere pieno predominio dei mari, deve quantomeno implementare il potere nelle direttrici terrestri. Tuttavia, come per la 21st Century Maritime Silk Road, esistono delle serie difficoltà anche per l’attuazione della Silk Road Economic Belt. Il ponte euroasiatico infatti si getta nel cuore della pivot area e attraversa la problematica Regione Autonoma dello Xinjiang, che, sebbene sia scarsamente popolata, è una delle più grandi regioni amministrative della Cina (1.709.400 km2). Essa si trova nel nord-ovest del Paese e confina con Russia, Mongolia, India, Pakistan, Tibet, Afghanistan, Tagikistan, Kirghizistan e Kazakistan. Nonostante l’instabilità politica dovuta alla presenza della minoranza degli Uiguri, la decisione di scegliere lo Xinjiang come corridoio di accesso per la nuova Via della Seta è stata quasi obbligata, per le condizioni geomorfologiche della regione e della stessa Cina. La Cina può essere separata in due diverse aree geodemografiche, in base alla linea immaginaria Heihe-Tengchong, nota anche come Linea Hu Huanyong, in onore del demografo che la ideò nel 1935. L’area orientale, molto fertile grazie alla presenza di ampie pianure e numerosi fiumi che si gettano nel Pacifico, ha una maggiore densità di popolazione e un migliore sviluppo economico rispetto a quella occidentale (13). Quest’ultima, invece, inospitale, stepposa e composta da bacini chiusi, altipiani deserti e catene montuose, ha una bassa urbanizzazione e uno scarso sviluppo economico. Le ragioni di questa disparità demografica ed economica si trovano proprio nelle differenti conformazioni geografiche. Nonostante le favorevoli condizioni climatiche e geodemografiche, è evidente come la florida Cina orientale non possa essere un punto di passaggio per il BRI terrestre, in quanto affacciata sull’Oceano Pacifico. Anche le regioni a nord-ovest della linea Hu non possiedono i requisiti per essere il fulcro centrale della Nuova Via della Seta. La regione del Tibet, infatti, con le sue montagne di seimila metri, renderebbe arduo un agevole trasporto di beni, mentre la Mongolia Interna, interamente circondata dalla Russia e dalla Mongolia, non garantirebbe alla Cina il pieno controllo sui canali commerciali per l’accesso delle merci in Eurasia. Apparentemente nemmeno lo Xinjiang avrebbe tutte le caratteristiche adatte per essere lo sbocco strategico verso l’Europa, in quanto scarsamente popolato e attraversato dai due grandi deserti del Taklimakan e del Gurbantünggüt. La regione però si affaccia ad ovest, è ricca di risorse naturali come rame, oro ed altri minerali, e possiede altresì riserve potenziali di petrolio che superano i 30 miliardi di tonnellate e oltre 10mila miliardi di metri cubi di riserve di gas naturale, che corrispondono ad un terzo del totale nazionale (14).
La posizione geografia dello Xinjiang, la sua migliore geomorfologia rispetto ad altri territori e le ricchezze del sottosuolo fanno sì che sia, quindi, l’unica regione idonea nella prospettiva della grand strategy cinese. In base ai progetti cinesi, infatti, dallo Xinjiang inizia il Corridoio Economico Cina-Pakistan, un insieme di infrastrutture che collegano il Paese al porto pachistano di Gwadar, snodo marittimo fondamentale per l’accesso all’Africa e al Mediterraneo, e passa un tratto del gasdotto che attraversa i confinanti Tagikistan e Kirghizistan. La scelta dello Xinjiang come crocevia della Nuova Via della Seta, può rappresentare, però, un ostacolo all’espansionismo cinese, date le peculiari caratteristiche etno-linguistiche e il forte senso identitario presenti all’interno della regione. Prima di analizzare le ragioni storiche e geografiche che hanno portato a questa diversificazione, è opportuno fare una precisazione generale. Non è infrequente che i confini naturali coincidano con i confini politici di una nazione. Le frontiere nazionali o regionali, infatti, ricalcano spesso la geografia dei territori, poiché nel corso della storia la presenza di corsi d’acqua o di catene montuose hanno influito sulle migrazioni delle popolazioni, favorendo la formazione di aree maggiormente popolate da specifici gruppi etno-linguistici. Questo è esattamente ciò che è accaduto in Cina, dove si nota una differente distribuzione di popolazione in base alle caratteristiche geomorfologiche del territorio. La parte orientale, separata dalle altre regioni da catene montuose che superano i mille metri e che attraversano il Paese in diagonale, è abitata prevalentemente da persone di etnia Han. Nella regione della Mongolia Interna, divisa dalla parte occidentale da catene montuose e dal Fiume Giallo a sud e da alture di oltre tremila metri ad ovest, il gruppo etnico maggioritario è quello mongolo. Nel Tibet, che a causa delle sue altitudini gode di una ancora maggiore forma di separazione rispetto al resto della Cina, predomina l’etnia tibetana. Il parziale isolamento geografico dello Xinjiang, che si trova circondato da catene montuose, a nord il Tien Shan, a ovest il Kunlun Shan e a sud l’AltunShan, ha fatto sì, invece, che all’interno del gruppo etnico predominante degli Uiguri si sviluppasse una forte senso di indipendenza e di identità culturale. Per avere una piena comprensione della questione uigura nello Xinjiang, è necessario, però, fare anche una breve disamina sulla storia della regione. Lo Xinjiang svolse un ruolo fondamentale per il commercio dell’Impero Cinese fin dal I secolo a.C., quando diventò una tratta di uno degli itinerari terrestri dell’antica Via della Seta, che permetteva di effettuare scambi commerciali con l’Impero Romano, passando attraverso il bacino del Tarim e il deserto di Taklamakan. Sebbene la Cina vanti il possesso di questa regione dal periodo della dinastia Han (206 a.C-220 d.C.), in realtà lo Xinjiang è sempre stato una terra di frontiera e, per questo motivo, nel corso dei secoli è passato sotto il dominio di diversi regni ed imperi. La regione, infatti, è stata governata dall’impero Tibetano, che possedeva le zone a sud del Turfan, e dal Regno Uiguro di Idiqut o Qocho, dal VIII al XII secolo. Dal XIV al XVII secolo, invece, parte dello Xinjiang fu annessa al Khanato islamico di Yarkand. In seguito fu il Khanato nomade e buddista degli Zungari (XVII secolo) a conquistare l’area (15). Nel 1759 la regione ritornò, durante la dinastia Qing, sotto il potere degli Han e adottò l’attuale denominazione di Xinjiang. L’Impero Cinese compì nei confronti degli sconfitti Zungari un vero e proprio genocidio. Fu questo violento cambiamento demografico a conferire allo Xinjiang l’identità musulmana e turcofona che tutt’ora permane, in quanto rese gli Uiguri, discendenti dei precedenti khanati musulmani, l’etnia numericamente dominante. In seguito alle rivolte musulmane del 1864, nella regione si impose poi l’emirato integralista islamico di Yaqub Beg, che nonostante godesse dell’appoggio degli Imperi Russo e Britannico, venne annientato tra il 1876 e 1878, quando l’esercito di Hunan riuscì a riconquistare lo Xinjiang. Fu in questo periodo che l’Impero Cinese iniziò a mandare all’interno della regione coloni di etnia Han, con lo scopo di omologarla culturalmente. Nuove manifestazioni irredentiste islamiche avvennero nel 1934, quando fu fondata la Prima Repubblica del Turkestan Orientale, presto sconfitta e riannessa alla Cina, e nel 1944 con la costituzione della Seconda Repubblica del Turkestan Orientale, che si disgregò ufficialmente nel 1946. Come si deduce, i conflitti sino-islamici nella regione sono stati costanti nella storia dello Xinjiang e, sebbene varino per intensità, permangono fino ad oggi. Gli Uiguri, infatti, sono una delle popolazioni turcofone che abitano l’Asia Centrale e che nel loro insieme occupano lo storico territorio del Turkestan, che in persiano significa letteralmente “terra dei turchi”. Nello Xinjiang, il senso di appartenenza al mondo turco è da secoli molto forte, come dimostra, ad esempio, la scelta della Prima e della Seconda Repubblica del Turkestan Orientale di adottare bandiere ispirate a quella turca, o il fatto che movimenti indipendentisti, come l’organizzazione terroristica dell’East Turkestan Islam Party (ETIP), abbiano più volte usato il concetto di Turkestan per motivare le proprie azioni. Tra gli Uiguri il panturchismo è peraltro aumentato ulteriormente in seguito alla caduta dell’URSS, quando la Turchia tentò di incrementare la propria sfera di influenza in Asia centrale (16).
Sebbene sia evidente che la cultura turca abbia profondamente influenzato quella Uigura, per quanto riguarda lo Xinjiang è possibile parlare di “nazione” nel senso proprio del termine? Secondo la definizione tradizionale di Gellner o Smith (17), la comunanza linguistica, religiosa, etnica, storica, politica e culturale creano una comune identità che si trova alla base del concetto di nazione. Con questi presupposti, sebbene lo Xinjiang non abbia le caratteristiche tipiche di uno Stato, intese come preminenza potestativa sul territorio, possiede invece i tratti distintivi di una nazione, in quanto la popolazione uigura possiede una lingua, una religione, una cultura ed un senso estetico comuni, completamente diversi da quelli presenti nel resto della Cina (18). L’identità nazionale dello Xinjiang rende sempre più difficile la relazione tra Uiguri e Han e rappresenta per la RPC un pericolo sia da un punto di vista geoeconomico, poiché rende instabile un’area geografica destinata allo sviluppo economico e commerciale, che da un punto di vista politico, poiché mette a rischio l’integrità dei confini nazionali.
Seguendo l’approccio geopolitico huntingtoniano, questa conflittualità non sembra destinata a diminuire. Il politologo affermò, infatti, che, dopo la Guerra Fredda e la crisi identitaria degli anni ’90, ogni nazione avrebbe ricercato la propria identità e che lo scontro ideologico sarebbe
stato rimpiazzato da quello di civiltà, e delineò uno scenario in cui le civiltà più affini avrebbero cooperato tra loro, scontrandosi con civiltà meno simili da un punto di vista culturale. Fra le principali civiltà individuate dagli studiosi sono annoverate quella giapponese, occidentale, latinoamericana, africana, sinica ed islamica.
Le civiltà descritte da Huntington non devono essere intese come mere unità politiche, visto che esse possono includere più Stati o un unico Stato può essere suddiviso fra più civiltà, ma piuttosto come unità culturali, più o meno differenziate tra loro e profondamente caratterizzate dalle quattro grandi religioni. Cristianesimo, Islam, Induismo e Confucianesimo hanno infatti plasmato la mentalità collettiva delle varie macro civiltà, modificando i sistemi di valori e influenzando gli schemi di comportamento, e hanno perciò, nel corso del tempo, assunto talvolta un ruolo politico.
Sebbene rientri all’interno del c.d. gruppo sinico, la RPC, in quanto Stato multireligioso e multietnico, rappresenta uno dei casi in cui l’entità politica contiene al suo interno più entità culturali o civiltà. Il confucianesimo è sicuramente la religione che ha forgiato la maggior parte della popolazione cinese ed ha largamente influenzato l’attuale struttura sociale e politica della Cina. In base al concetto di “ren” contenuto all’interno degli anacleti di Confucio, che Peter Boodberg traduce come “co-humanity”, la vita dell’uomo virtuoso confuciano deve essere improntata alla benevolenza e al rispetto della gerarchia sociale, familiare e politica, nell’ottica del perseguimento dell’armonia sociale (19). Questo mancato impulso all’individualismo in favore del benessere collettivo, ha portato alcuni studiosi a sostenere che il confucianesimo sia incompatibile con i concetti di libertà e democrazia, tipici dell’occidente (20). Diversamente, la regione autonoma dello Xinjiang è un territorio culturalmente distante dal resto della Cina e, poiché la popolazione uigura è stata modellata in base ai principi dell’islam, per definizione essa non può essere inclusa all’interno della civiltà sinica, bensì in quella islamica. Seguendo le linee guida di Huntington, lo scontro tra queste due distinte civiltà era di per sé inevitabile, non solo perché lo Xinjiang fa parte di un’entità politica prevalentemente sinica, ma anche per la natura belligerante e la glorificazione delle virtù militari tipiche dell’islam (21).
E’ opportuno sottolineare, però, che, nella visione huntingtoniana, il conflitto a bassa intensità tra la minoranza degli Uiguri e i cinesi Han deve essere inteso più propriamente come fault line conflict o scontro di faglia. Questa forma di conflitto, infatti, avviene a livello locale fra Stati confinanti appartenenti a diverse civiltà o, più frequentemente, per la presenza all’interno di un unico Stato di popolazioni facenti parte di civiltà differenti. Come avviene nella maggior parte dei conflitti di faglia, anche nel caso dello Xinjiang i due gruppi etno-linguistici lottano per il dominio del territorio, mettendo così a rischio l’integrità nazionale della Cina. Per entrambe le etnie, la regione possiede un alto valore simbolico. Per gli Uiguri essa è la patria perduta e la terra promessa da riconquistare, per gli Han, invece, è il territorio che racchiude in sé tutta la grandezza dell’era imperiale. Lo Xinjiang è, infatti, parte integrante della retorica del “mai più” del presidente Xi e rappresenta la nuova frontiera indispensabile per la conquista del dominio globale e la definitiva caduta dell’impero occidentale.
Sebbene Huntington evidenzi, citando anche lo Xinjiang e la popolazione degli Uiguri, come gli scontri di faglia siano frequenti soprattutto tra musulmani e non musulmani, questo conflitto locale tra civiltà sinica ed islamica non deve essere confuso con lo scontro di civiltà che si manifesta al di fuori delle linee di faglia. Il politologo specifica, infatti, che le civiltà sinica ed islamica non sono nemiche, ma piuttosto, secondo la teoria realista, alleati contro la civiltà occidentale (22). La società sinica, così come anche quella islamica, risulta essere, infatti, ideologicamente incompatibile con quella occidentale. Quest’ultima promuove i principi di libertà, uguaglianza e pensiero critico anche nei confronti delle autorità, ed è permeata da un forte individualismo, mentre quella sinica è improntata al mantenimento e al rispetto quasi religioso di una rigida gerarchia sociale, ed incoraggia il sacrificio dell’individuo per la collettività. A questa divergenza ideologica si deve aggiungere l’intrinseco disprezzo che sia la civiltà sinica che quella islamica mostrano nei confronti della cultura occidentale (23). Se l’odio atavico tra musulmani e cristiani è ben noto sin dai tempi delle crociate, anche quello sinico è antico e risale al periodo imperiale. Questa avversione era parzialmente diminuita nel periodo post-imperiale, quando la Cina, adottando un approccio kemalista riformista, riuscì a raggiungere un elevato grado di modernizzazione, ma è nuovamente cresciuta, come Huntington asserisce nel paragrafo “L’affermazione asiatica”, dopo il recente sviluppo economico, sotto forma di rinnovata insofferenza nei confronti dei costumi occidentali ed esaltazione dei valori tipici della cultura asiatica. In particolare, la propaganda della RPC attribuisce il merito della vertiginosa crescita economica al rigore ed allo spirito di sacrificio “co-umanista” ereditati dal confucianesimo. In sintesi, secondo lo studioso, il comune disprezzo che le civiltà sinica ed islamica provano nei confronti dell’occidente favorirebbe un consolidamento ed un potenziamento dell’alleanza islamico-confuciana, che dal suo nucleo originario formato da Pakistan, Cina ed Iran, potrebbe estendersi ad altri Paesi ed includere vari settori, da quello militare a quello economico. L’alleanza islamico-confuciana, non porta comunque all’unificazione delle due civiltà, che rimangono indiscutibilmente distinte.
La regione dello Xinjiang rappresenta, perciò, per la Cina un centro nevralgico dello scontro di civiltà, perché oggetto di un conflitto di faglia e, allo stesso tempo, attraverso lo sviluppo dell’iniziativa strategica della Nuova Via della Seta, strumento geoeconomico fondamentale per la guerra con l’Occidente. E’ indubbio, però, come la questione uigura ponga la Cina in una posizione ambigua. Se da una parte, infatti, è necessario che la RPC collabori con i limitrofi Paesi turcofoni nel tentativo di erodere la sfera di influenza statunitense, dall’altra teme che essi possano supportare i moti indipendentisti uiguri, mettendo a rischio non solo il progetto di supremazia globale, ma anche i limiti territoriali nazionali. Questo timore non è del tutto infondato, in quanto nei conflitti di faglia è frequente che i Paesi limitrofi appartenenti alla stessa civiltà della minoranza coinvolta, forniscano a quest’ultima supporto economico, logistico e militare. La sfida geoeconomica che la
Cina ha lanciato agli USA con la Belt and Road Initiative ha quindi una natura ambivalente, in quanto può essere analizzata sia nella prospettiva di uno scontro di civiltà con l’occidente che in quella di uno scontro di faglia con la minoranza uigura. Da un lato ha, infatti, lo scopo di spegner lo scontro di faglia, isolando lo Xinjiang dal resto degli Stati turcofoni, dall’altro è volto alla totale disfatta dell’influenza occidentale in Asia centrale e in generale a livello globale. In quest’ottica, il coinvolgimento nella Nuova Via della Seta del Pakistan, Paese islamico e storico alleato cinese inAsia in chiave anti-indiana, è senz’altro fondamentale affinché la Cina possa raggiungere i propri obiettivi. La costruzione del corridoio economico Cina-Pakistan tra la città di Kashgar nello Xinjiang e il porto di Gwadar nel Balucistan, infatti, permetterebbe alla Cina di ottenere uno sbocco sul mare alternativo allo stretto di Malacca, da cui attualmente passa il 40% dei commerci internazionali (24), che rientra nella sfera d’influenza statunitense (25).
Similmente, la costruzione di rotte commerciali che passano dai vicini Kazakistan, Tagikistan e in particolare dal Kirghizistan, come la ferrovia Cina-Kirghizistan-Uzbekistan (KKU), consentirebbe alla Cina di sottrarre ai russi il controllo del transito terrestre delle merci dirette verso l’Europa (26) e, allo stesso tempo, di evitare la cintura di strangolamento americana nel Sud-Est asiatico.
Questa visione di impronta geoeconomica è strumentale anche all’esigenza della Cina di mettere a tacere la questione dello Xinjiang e nel far sì che la minoranza uigura non possa trovare alleati nei vicini Paesi turcofoni. Il progetto prevede, infatti, la realizzazione nei Paesi coinvolti di grandi progetti infrastrutturali come strade, autostrade, gasdotti, reti elettriche e in fibra ottica quasi interamente finanziati da banche cinesi. Sebbene la situazione appena descritta sembri rappresentare il classico scenario win-win, poiché dà alla Cina la possibilità di ammortizzare i costi della research and development che sono cresciuti esponenzialmente negli ultimi dieci anni e permette agli Stati destinatari di godere di un rapido sviluppo economico, in realtà gli ingenti finanziamenti cinesi rischiano di far cadere i suddetti Stati nella c.d trappola del debito, come accaduto recentemente allo Sri Lanka (27). Ciò garantirebbe alla Cina non solo un controllo economico, ma anche una notevole influenza politica in Paesi che per ragioni culturali, etniche e linguistiche risultano essere vicini alla causa degli Uiguri, come dimostra la recente decisione del Kazakistan di accogliere i richiedenti asilo provenienti dallo Xinjiang. In questa prospettiva deve essere letto anche l’incontro fra il ministro degli esteri cinese Wang Yi e una delegazione talebana, avvenuto il 28 luglio a Tianjin. L’intenzione della Cina, infatti, non è solo quella di avviare una collaborazione economica con l’Afghanistan, ma soprattutto quella di impedire che i gruppi di militanti uiguri presenti nel Paese possano sfruttare il corridoio del Wakhan come base logistica per lanciare attacchi terroristici nello Xinjiang (28), destabilizzando così questa regione così cruciale per riuscire a recuperare l’onore perduto durante il secolo dell’umiliazione.
Oltre allo scenario economico appena descritto, può essere utile riportare come la Cina abbia il proposito di aumentare la propria presenza militare in Asia, come si evince dall’intenzione del governo di Pechino di costruire la sua seconda base militare all’estero, dopo quella di Gibuti, a Gwadar, e dalle esercitazioni militari antiterrorismo svolte congiuntamente con il Tagikistan il 18 agosto vicino a Dushanbe (29).
Nonostante il pericolo del debito e il crescente sentimento sinofobico tra la popolazione di diversi Stati dell’Asia centrale, per il momento le vantaggiosissime condizioni economiche offerte dalla Cina hanno prevalso sulle ragioni identitarie e ciò si è tradotto in un generale silenzio dei governi dei Paesi turcofoni su quello che avviene all’interno dei confini dello Xinjiang.

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I campi di rieducazione: genocidio culturale e omogeneità culturale.
La Cina combatte lo scontro di faglia con gli uiguri non solo creando alleanze con i Paesi turco-musulmani, ma anche con specifiche politiche interne, volte all’omologazione etnica e culturale dello Xinjiang.
Le attuali linee guida del Partito Comunista Cinese sono in continuità con quelle che il PCC aveva già adottato nel corso degli anni ’50, quando incorporò lo Xinjiang all’interno della Repubblica Popolare Cinese. All’epoca il governo impiegò, infatti, diverse politiche di omologazione sociale, incoraggiando lo stanziamento di cinesi di etnia Han nella regione e tenendo sotto stretta sorveglianza la minoranza di religione musulmana. Similmente, a partire dal 2017, Chen Quanguo, Segretario del Partito Comunista dello Xinjiangha incentivato, con politiche mirate, lo spostamento di Han all’interno della regione e ha predisposto un maggiore dispiegamento di soldati sul territorio. Al momento la popolazione uigura è dunque sottoposta ad un ferreo regime di repressione, anche attraverso la trasformazione delle aree urbane in Smart Cities e Safe Cities, con l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia, come sistemi di videosorveglianza avanzati e il riconoscimento facciale. Tali restrizioni, che sono applicate non solo nei confronti della minoranza uigura, ma anche di quella kazaka e kirghisa, sono accompagnate da frequenti messaggi di indottrinamento, diffusi attraverso diversi altoparlanti dislocati nelle strade delle città (30).
Anche i famigerati Centri di istruzione e formazione professionale, comunemente noti come“campi di rieducazione”, campi di internamento per le minoranze turcofone gestiti dalla regione autonoma dello Xinjiang, sono una misura repressiva relativamente recente. I centri, infatti, sono stati ufficialmente istituiti nel 2014, in seguito ad un attentato terroristico, attribuito ai membri dell’ETIP, avvenuto nel 2013 a Pechino, che ha dato il via, in Cina, ad una vera e propria guerra al terrore (31). Il governo cinese sostiene che i campi facciano parte di “una campagna speciale per reprimere le attività terroristiche di carattere violento in armonia con la legge” (32) e che siano quindi stati creati fondamentalmente per adempiere a due compiti: il primo è quello di garantire la pace nella regione, prevenendo eventuali moti separatisti; il secondo è quello di impedire il verificarsi di attacchi terroristici dovuti all’elevata presenza di musulmani sunniti.
Numerosi studiosi ed attivisti, però, dopo aver raccolto dati e testimonianze di persone fuggite dai campi e/o dalla regione, sono giunti alla conclusione che il governo cinese sfrutti la minaccia del terrorismo, per legittimare la presenza di veri e propri campi di concentramento ed abbia così, similmente ai lager nazisti, legalizzato un apparato volto all’endemica violazione dei diritti umani. Tuttavia, sebbene in questi campi avvengano massicce violazioni dei diritti umani, ricondurre tali crimini a motivazioni eugenetiche, come nel caso nel Terzo Reich, non sarebbe corretto. Anche se la Cina, dopo il periodo Maoista, ha mostrato poca tolleranza nei confronti delle minoranze religiose, musulmane e non, l’appartenenza a confessioni non riconducibili al confucianesimo non è una ragione sufficiente per spiegare una persecuzione di tale portata. Il motivo principale della repressione degli Uiguri è, infatti, l’omogeneità.
Il ricercatore cinese, Hu Lianhe, uno dei principali fautori della teoria della stabilità, sostiene che lo Stato, per essere perfetto, debba essere omogeneo, ovvero abitato da persone che tendono verso l’uniformità di comportamento (33). In genere le nazioni si caratterizzano per il fatto che le popolazioni al loro interno possiedono schemi di comportamento e sistemi di valori omogenei. Ciò si può senz’altro affermare anche per le civiltà, visto che esse sono composte da un insieme di varie nazioni, legate da una somiglianza tale da renderle un’unica unità culturale. Hu, come Huntington, riconosce l’importanza che l’omogeneità culturale ha in aree geografiche delimitate, in quanto un’elevata comunione di valori e principi agevola la collaborazione tra le varie unità politiche ed evita il verificarsi di conflitti o la proliferazione di movimenti indipendentisti, che, guidati dalle élite etniche locali, possono mettere a rischio la stabilità di una determinata area geografica e l’integrità dei confini territoriali.
Ma l’omogeneità è davvero indispensabile affinché uno Stato possa essere sicuro ed efficiente? Osservando l’esempio dell’acerrimo nemico cinese, gli Stati Uniti, la risposta sembrerebbe essere negativa. Gli USA, infatti, sono uno Stato multietnico e multireligioso, e sebbene talvolta vivano il melting pot che li contraddistingue in modo conflittuale, sono comunque la più grande potenza mondiale. Questo perché, nonostante le varie distinzione etniche e religiose,
negli USA è presente un forte patriottismo, basato su una fierissima e solida identità nazionale, che la quasi totalità dei cittadini statunitensi condivide. Ciò è stato possibile anche perché, sin dalle prime ondate migratorie del secolo scorso, il governo americano sottopose gli immigrati a corsi di americanizzazione, per apprendere i valori fondamentali su cui era fondato il Paese. Valori, dunque, che rientrano pienamente nell’insieme di quelli che caratterizzano la civiltà occidentale, in cui gli americani si identificano a prescindere dalla loro etnia o dal credo.
A differenza degli Stati Uniti, in Cina le minoranze hanno aspirazioni indipendentiste e non si riconoscono nell’identità nazionale prevalente. Questa è la ragione per cui il processo di omologazione sembrerebbe indispensabile ed è in questa prospettiva che deve essere analizzato l’attuale genocidio culturale compiuto dal governo cinese nello Xinjiang. Esso è un progetto politico che mira a distruggere una cultura propria di una minoranza per rafforzare quella del gruppo dominante, tenendo bene a mente l’obiettivo finale: mantenere l’integrità territoriale, vincere lo scontro di faglia, ed, infine, quello di civiltà.
Come riportato in precedenza, Huntington ha sottolineato come la recente evoluzione della civiltà sinica sia strettamente connessa alla c.d. affermazione asiatica, che ha portato con sé una dialettica secondo cui il successo asiatico e, nel caso specifico, quello della Cina è frutto della superiorità della propria cultura. In un’ottica di successo globale, essa non può essere quindi in alcun modo corrotta da culture ritenute “inferiori”. Nella prospettiva cinese, infatti, solo una Cina unita e sinica-confuciana può ottenere il controllo della pivot area e aspirare a sconfiggere la civiltà occidentale e, con essa, il suo grande leader, gli Stati Uniti d’America.

(Foto: Depositphotos).
Gli Uiguri, un’arma fredda nelle mani degli americani.
Negli ultimi anni alcune delle più importante testate giornalistiche mondiali, dal New York Times al Der Spiegel, per descrivere i rapporti tra Cina e Stati Uniti, parlano di nuova guerra fredda. L’attuale antagonismo sino-americano non è tuttavia paragonabile a quello che gli USA avevano con l’Unione Sovietica nel corso dello scorso secolo. Durante la guerra fredda esisteva, infatti, una forte contrapposizione tra due grandi ideologie, quella capitalista e quella comunista ed era dunque corretto fare riferimento all’esistenza di due differenti blocchi, perché lo scontro tra le due superpotenze non si limitava alla previsione di accordi economici con Stati alleati o a trattati di mutua assistenza, ma presupponeva l’adesione a specifici standard economici, politici ed ideologici. La locuzione “guerra fredda” era perciò adatta a descrivere la compattezza che
caratterizzava i due schieramenti e il livello di assimilazione richiesto alle varie nazioni per poter far parte di essi.
E’ evidente, quindi, come la presente conflittualità tra RPC e Stati Uniti sia nettamente differente da quella che contraddistingueva USA e URSS. Gli USA, infatti, Paese leader del mondo occidentale, non ambiscono più ad esportare i propri concetti di libertà e democrazia, né del resto la Cina tenta di sinizzare i Paesi con i quali stringe accordi economici o militari. L’origine non ideologica di questo conflitto suggerirebbe, perciò, di evitare l’uso della locuzione “guerra fredda”, perlomeno per come intesa nella sua accezione originale. Per meglio descrivere questo scontro tra Cina e Stati Uniti, sarebbe più opportuno, infatti, utilizzare l’espressione “Trappola di Tucidide”, coniata dal politologo americano Graham Allison (34). Tale espressione, che riporta alla guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta, viene usata quando si individua come possibile causa per lo scoppio di una guerra la rivalità tra una potenza in ascesa, che lotta per emergere sulla scena politica internazionale, ed una già affermatasi, che percepisce l’altra come una minaccia. Questa locuzione sembra, quindi, decisamente più adatta per descrivere l’ostilità che intercorre tra Cina e Stati Uniti. La RPC, infatti, mortificata dal secolo di umiliazione, cerca riconoscimento ed affermazione internazionale, mentre gli USA, nel tentativo di mantenere la loro supremazia globale, provano a contenere questa progressiva espansione.
Una delle armi utilizzate dagli USA è indubbiamente la strumentalizzazione della questione uigura nello Xinjiang. I giornali e i politici statunitensi danno, infatti, notevole spazio alle violazioni dei diritti umani perpetrate dal Governo cinese nei confronti Uiguri, ignorando quelle compiute ai danni di altre minoranze religiose sia in Asia che in altri continenti. La ragione di tale rilievo è che il supporto mediatico fornito alla minoranza turcofona è in realtà uno strumento finalizzato alla destabilizzazione della regione nordoccidentale cinese.
Questa tattica è stata appresa dagli Stati Uniti nel corso della Guerra Fredda, quando prima l’Unione Sovietica tentò di creare i presupposti per una guerra civile sul territorio americano, appoggiando il progetto degli afroamericani di creare la c.d. Black Belt, uno Stato interamente afroamericano sito nel sud del Paese, e poi la rivoluzione culturale cinese ispirò la guerriglia urbana delle Black Panthers (35). E’ utile riportare che la Cina ha peraltro usato un approccio simile a quello tenuto negli anni ’60 e ’70 anche nel 2020, in seguito ai tumulti esplosi per l’omicidio di George Floyd (36).
È dunque comprensibile la scelta degli USA di provare a destabilizzare la Cina dall’interno, sfruttando i conflitti esistenti con le minoranze oppresse. Affiorano, tuttavia, dei dubbi sulla reale efficacia di questo piano, perché quando in passato Cina ed Unione Sovietica tentarono di sfruttare la questione degli afroamericani per dividere ed indebolire gli Stati Uniti non ottennero alcun risultato rilevante. A riguardo deve però essere rimarcato il fatto che negli Stati Uniti anche gli individui appartenenti a minoranze etniche e religiose si identificano come americani. A conferma si può ricordare che i movimenti per i diritti civili erano guidati da leader religiosi di tradizione cristiana e che persino il radicale Black Power Movement promuoveva valori tipici della cultura americana, anche se spesso inconsciamente. In Cina, invece, la situazione è completamente differente, poiché molti uiguri si identificano come abitanti del Turkestan Orientale e, in base a questo presupposto, propugnano il separatismo e bramano l’indipendenza.
Gli uiguri sono, però, solo un piccolo gruppo etnico asceso involontariamente alla ribalta internazionale, che si trova suo malgrado nell’epicentro dello scontro fra due grandi superpotenze. Nonostante, infatti, la minoranza abbia contatti con diversi gruppi terroristici presenti in Asia centrale, essa non possiede né i numeri né i mezzi per poter competere con la Cina e soprattutto non ha né può ottenere un sostegno concreto da parte degli Stati Uniti. Sebbene, infatti, gli USA tentino continuamente di sobillare i moti indipendentisti nello Xinjiang, affinché la Cina debba impegnare fondi e risorse per aumentare la propria presenza militare nella regione cosicché non possa utilizzarle in altre aree critiche per lo sviluppo e l’espansione del Paese, essi, in realtà, non possono intervenire materialmente nella questione. Benché il terrore della guerra fredda dovuto al pericolo di un’incombente guerra nucleare sia ormai solo un lontano ricordo, la situazione di stallo nucleare permane tutt’oggi e, con essa, tutte le derivanti conseguenze. Il reale obiettivo degli Stati Uniti non è quindi quello di ottenere l’indipendenza per lo Xinjiang. Essi, infatti, puntano semplicemente ad usare gli uiguri come pedoni da sacrificare, in attesa che la regina faccia una mossa sbagliata.

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Note.
1 – Moritsugu, Ken (2021) “On Eid, Xinjiang imams defend China against US criticism”, Apnews. Reperibile presso: https://apnews.com.
2 – “I conflitti di faglia sono conflitti tra Stati o gruppi appartenenti a diverse civiltà ed assumono carattere violento. Simili guerre possono verificarsi tra Stati, gruppi non governativi, tra Stati o gruppi non governativi”. cit: Huntington,Samuel P., “Lo Scontro Delle Civiltà e Il Nuovo Ordine Mondiale” Milano: Garzanti editore s.p.a. (1997- 2008), p. 374; vedi oltre ch. 2.
3 – Gli stranieri potevano commerciare con solo tredici agenzie commerciali approvate, inoltre i funzionari locali richiedevano “tasse di protezione” molto elevate per i loro servizi. Per di più, gli scambi erano limitati alle stagioni estive e autunnali e agli stranieri era imposto di ritirarsi a Macao durante il resto dell’anno, ed era loro impedito anche l’apprendimento della lingua cinese. Secondo Zheng, le ragioni di questi limitazioni non erano solo economiche, ma anche culturali, in quanto derivanti dal forte senso di superiorità culturale cinese. Zheng, Wang, “Never Forget National Humiliation”, New York: Columbia University Press (2012) cap. 2, versione e-book.
4 – Meisner, Maurice, “Mao Zedong. A Political and Intellectual Portrait” Cambridge: Polity press, (2007) p. 5-7.
5 – Zheng, analizzando la visione sino-centrica del periodo cinese imperiale e la connessa idea di predestinazione, spiega come la caduta dell’Impero e la memoria storica collettiva abbiano generato un vero e proprio trauma nazionale. Zheng,Wang, “Never Forget National Humiliation” (2012) New York: Columbia University Press. versione e-book.
6 – Nel 1951, PRC e URSS firmarono un accordo secondo cui l’URSS avrebbe aiutato la Cina a sviluppare il proprio programma nucleare, in cambio di forniture di uranio. Tuttavia l’Unione Sovietica non potè più supportare la Cina nella sua corsa al nucleare, a causa del trattato sulla messa al bando parziale degli esperimenti nucleari, del 1963.
7 – Cit. Rampini, Federico (2004) “Quando la Cina divenne nucleare” Repubblica, reperibile presso: https://ricerca.repubblica.it/; Mark, Chi-Kwan, “China and the world since 1945: an international history” (2012) London- New York:Routledge, p. 46.
8 – L’espressione “progetto terzo mondo” è usata da Prashad Vijay nell’introduzione di “The Darker nations: A People’s History of the Third World” New York-London: The New Press (2007); Yu, George T. “China and the Third World.” Asian Survey 17, no. 11 (1977): 1036-048. doi:10.2307/2643352, p. 1043; Wei, Song, “Seeking new allies in Africa: China’s policy towards Africa during the Cold War as reflected in the construction of the Tanzania–Zambia railway.” Journal of Modern Chinese History, 9:1,46-65, (2015) DOI: 10.1080/17535654.2015.1030836, p. 59.
9 – Akindele, R. A. “Africa and the Great Powers, with Particular Reference to the United States, the Soviet Union and China.” Africa Spectrum 20, no. 2 (1985): 125-51. http://www.jstor.org/stable/40174201. pp.139- 144; Yu (1977) pp.
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10 – Per maggiori informazioni si veda: Szymanski, Albert. “SOVIET SOCIAL IMPERIALISM, MYTH OR REALITY:AN EMPIRICAL EXAMINATION OF THE CHINESE THESIS.” Berkeley Journal of Sociology< 22 (1977): 131- 66. http://www.jstor.org/stable/41035250. 11 - Mark, Chi-Kwan, “China and the world since 1945: an international history” (2012) London- New York: Routledge,p.7. 12 - Tischler, Mark, China’s ‘Never Again’ Mentality, The Diplomat, 18 Agosto 2020. Reperibile presso: https://thediplomat.com/2020/08/chinas-never-again-mentality. 13 - Nel2015, le regioni che si trovano a nord-ovest delle linee che erano abitate dal 6.12% della popolazione cinese, mentre quelle a sud-est dal 93.88 %. Li, Minmin, Biao He, Renzhong Guo, You Li, Yu Chen, and Yong Fan. (2018). "Study on Population Distribution Pattern at the County Level of China" Sustainability 10, no. 10: 3598, p. 6. https://doi.org/10.3390/su10103598; Le regioni a nord-ovest della Linea, nel 1919, producevano 47940,19 milioni di yuan, mentre quelle a sud-est della Linea 937392,92 milioni di yuan. National Bureau of Statistics of China “China statistical yearbook 2020” no. 3:9, http://www.stats.gov.cn. 14 - Overton, Thomas (2016) “The Energy Industry in Xinjiang, China: Potential, Problems, and Solutions.” Powermag. Reperibile presso: http://powermag.com. 15 - Millward, James A. (2007) “Eurasian crossroads: a history of Xinjiang”. New York: Columbia University Press, pp. 373-380. 16 - De Renzi, Federico (2005) “Il sogno del Turkestan orientale” Limes. Reperibile presso: http://limesonline.com. 17 - AA.VV. “Scienza politica” (2008) Bologna: Il Mulino, p. 456. 18 - Nello specifico si fa riferimento al Project Beauty cinese del 2013, con il quale il governo cinese ha tentato di conformare il gusto estetico Uiguro a quello Han, in modo da ridurre le differenze e tendere verso l’omologazione. 19 - TAN, Sor-Hoon. (2010). Confucianism and democracy. In Confucianism in Context (pp. 103-120). New York: State University of New York Press, p. 108. Reperibile presso: https://ink.library.smu.edu.sg/soss_research/2552. 20 - Ibi., p. 105. 21 - Huntington, Samuel P., “Lo Scontro Delle Civiltà e Il Nuovo Ordine Mondiale” Milano: Garzanti editore s.p.a. (1997- 2008), pp. 391, 392. 22 - Huntington, Samuel P., p.268. 23 - Huntington, Samuel P., pp., 1-152. 24 - Muratori A., Giuliani F. (2021) “Perché il Pakistan può essere una mina vagante per la Cina?”, Inside the news overthe world. Reperibile presso: https://it.insideover.com. 25 - Cuscito, Giorgio (2021) “L’instabilità di Pakistan e Afghanistan minaccia la Cina”, Limes. Reperibile presso: https://www.limesonline.com. 26 - Gironi, Camilla (2021) “La Cina bussa al Kirghizistan, non solo per interessi economici”, Osservatorio Russia. Reperibile presso: https://www.osservatoriorussia.com. 27 - Maronta, Fabrizio (2018) “Strangolati con la seta?”. Limes. Reperibile presso: http://limesonline.com. 28 - Giuliani, Federico (2021) “Il ruolo chiave del corridoio di Wakhan in Afghanistan”, inside the news over the world. Reperibile presso: http://it.insideover.com. 29 - Canestri, Camilla (2021) “Cina-Tajikistan: le esercitazioni militari antiterrorismo guardano all’Afghanistan”. Sicurezza internazionale. Reperibile presso: https://sicurezzainternazionale.luiss.it; Chan M. (2018) “First Djibouti ... now Pakistan port earmarked for a Chinese overseas naval base, sources say”, South China Morning post. Reperibili presso: https://www.scmp.com. 30 - Schmitz, Rob (2017) Wary Of Unrest Among Uighur Minority, China Locks Down Xinjiang Region. Reperibile presso: https://www.npr.org; per maggiori informazioni sulle condizioni di vita, si consiglia la lettura dei report di Amnesty International. 31 - Corrispondente speciale (2018)” A Summer Vacation in China’s Muslim Gulag How one university student was almost buried by the "people's war on terror." Foreign Policy. Reperibile presso: https://foreignpolicy.com. 32 - Leibold, James (2018) “Melting Pot ma alla Cinese” Limes. Reperibile presso: https://www.limesonline.com. 33 - Ibid. 34 - Graham, Allison. “The Thucydides Trap: Are the U.S. and China Headed for War?” Atlantic (2015). Reperibile presso: https://www.theatlantic.com. 35 - Berg, Manfred. “The Ticket to Freedom-The NAACP and the Struggle for Black Political Integration”. University Press of Florida (2005) p. 62; Robin D.G. Kelley & Betsy Esch (1999) Black like Mao: Red China and black revolution, Souls: Critical Journal of Black Politics & Culture, 1:4, 6-41, DOI: 10.1080/10999949909362183, p. 23. 36 - Ruwitch, John. “In George Floyd Protests, China Sees A Powerful Propaganda Opportunity” Npr. Reperibile presso: https://www.npr.org.