L’Odissea dei Rohingya

Quando sono i musulmani ad essere perseguitati.

di Gianluca Vivacqua

Non vivono solo in Birmania. Dalla Birmania si sarebbero espansi in quasi tutta l’Asia estremorientale, o piuttosto dal Bangladesh. Tradizione vuole che i primi Rohingya, la minoranza musulmana dell’Indocina e del subcontinente indiano, approdarono sulle coste del Myanmar nell’VIII sec. e furono martirizzati. La loro sorte fu, in un certo senso, il triste preludio di quella che sarebbe stata, nei secoli futuri, una difficile convivenza con i locali. Erano mercanti, provenienti dalla penisola araba: col proprio sangue avevano aperto la strada ad altri migranti islamici che, col tempo, si insediarono anche in Bhutan, Laos, Vietnam, Thailandia, Indonesia e poi anche India, Nepal, Pakistan e Bangladesh. Attualmente, gli stati asiatici in cui i Rohingya sono maggiormente presenti sono la Birmania e poi il Bangladesh, il Pakistan, la Thailandia e la Malaysia. Tralasciamo dall’elenco l’Arabia Saudita, terra dei loro padri.
Il dato significativo, però, è che, nei fatti, di Rohingya ce ne sono molti di più in Myanmar che nella stessa Arabia Saudita. Nella regione birmana in cui sono stanziati infatti, e cioè lo stato di Rakhine, ne abitano ben 800mila, mentre nel regno wahhabita i Rohingya sono “solo” 500mila. I Rohingya sono dunque un vero e proprio stato nello stato, e certamente una presenza ingombrante nel tessuto politico-culturale del Myanmar, almeno quanto i musulmani di quella parte dell’India che, proprio per i conflitti religiosi provocati da essi, finì col rendersi indipendente sotto il nome di Pakistan.
A rendersi indipendenti, a dire il vero, ci hanno pensato, e da tempo, anche i Rohingya. Sulle prime provarono ad agganciarsi proprio all’indipendenza pakistana, per realizzare una sorta di annessione pacifica al nuovo stato. Poi, all’ombra del partito che dirigeva politicamente il movimento indipendentista, e cioè il partito Mujahid, si sviluppò anche la lotta armata. Quest’ultima si inasprì dopo il 1962, quando un colpo di stato portò al potere in Birmania una giunta militare che iniziò a perseguitare i musulmani. In conseguenza di ciò tantissimi Rohingya a partire dagli anni ’70, migrarono in alcuni paesi fratelli, in primis Bangladesh e Pakistan. Gli altri che ebbero il coraggio di rimanere, per resistere alle oppressioni e opporsi ad esse (ma anche molti degli espatriati, in realtà, sconfinavano per apprendere nuove tecniche di guerriglia dai mujaheddin pakistani e banglesi), dovettero subire condizioni emarginanti e repressive sempre più insopportabili, culminate, nel 1982, con la negazione perpetua della cittadinanza birmana. All’inizio degli anni ’90 altri 250.000 musulmani birmani emigrarono in Bangladesh, mentre si moltiplicavano confische di terre, esecuzioni sommarie, torture, stupri ai danni delle donne di quella popolazione, vessata anche da tasse abnormi. E per chi non si piegava ai tributi, c’erano i lavori forzati.
Le cose non sono certo cambiate col nuovo millennio. A mutare è stata solo la rotta dei migranti: non più Bangladesh e Pakistan, ma Thailandia. Nel 2009 circa 9mila Rohingya sono stati rimpatriati dal Bangladesh; in compenso, però, si stima che circa 110mila Rohingya siano ancora ospitati in nove campi profughi lungo il confine tra Thailandia e Birmania.
All’intolleranza del governo centrale si aggiunge, naturalmente, anche quella degli altri abitanti dello stato di Rakhine, di credo buddhista (quello maggioritaria in Birmania): l’ennesima riprova di ciò si ebbe nel 2012, quando l’omicidio di una ragazza buddhista e l’incriminazione – non fondata su alcuna prova – di tre giovani Rohingya provocò una vera e propria guerra civile.
Nel maggio 2014, due mesi dopo che il governo di Naypyidaw aveva addirittura cancellato dal vocabolario la parola “Rohingya”, la Camera dei rappresentanti Usa, a maggioranza democratica e dunque interprete della sensibilità obamiana verso le minoranze etnico-religiose, approvò una risoluzione che sollecitava il governo birmano a porre fine a violenze e persecuzioni contro i musulmani. Ad essa faceva seguito, un anno dopo, un documento del Consiglio Onu per i diritti umani, che andava nella stessa direzione. Queste importanti prese di posizione internazionali sembravano i segnali di benvenuto più giusti per un’era migliore, quella che tutti speravano sarebbe coincisa con l’insediamento nella più alta carica di governo di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991e simbolo vivente dell’opposizione al regime militare birmano. Non si erano fatti i conti, però, col braccio armato della resistenza Rohingya, l’ Arakan Rohingya Salvation Army (Arakan è il nome più antico dello stato di Rakhine). Furono proprio questi miliziani a prendersi prepotentemente la scena un anno dopo la nomina a primo ministro della Suu Kyi, avvenuta nel 2016. La nuova, violentissima repressione dell’esercito birmano fu appunto una reazione agli attacchi condotti dall’Arsa contro stazioni di polizia. E il neopremier, stretto tra due fuochi – la volontà di favorire una coesistenza pacifica tra componenti religiose ma anche il dovere di contrastare la violenza paramilitare musulmana – non riuscì a fare nulla per impedire questo spargimento di sangue né il disappunto di Bob Geldof, degli U2 e degli altri suoi grandi elettori ideali in tutto il mondo. Il suo silenzio apparve subito, da più parti, sconcertante, e, cosa più grave, venne considerato connivente col “genocidio”.
Da quel momento l’icona Suu Kyi si è appannata notevolmente. Per la questione musulmana Gandhi, com’è noto, ci rimise la vita, lei, invece, ci sta rimettendo prestigio e carisma.