L’Onu fa la Commissione per i diritti delle donne. E ci mette l’Arabia Saudita

di C. Alessandro Mauceri –

Nei giorni scorsi le Nazioni Unite hanno comunicato i tredici paesi che sono entrati a far parte della Commissione per i diritti delle donne. Lo ha fatto in modo molto discreto con un trafiletto in una pagina in cui si parlava di altro.
Il motivo di tanta “discrezione” forse è da cercare proprio nella lista dei paesi che si occuperanno dei diritti delle donne dal 2018 al 2022: cinque sono paesi africani (Algeria, Comore, Congo, Ghana e Kenya), cinque provengono da Asia e Pacifico (Iraq, Giappone, Repubblica di Corea, Arabia Saudita e Turkmenistan) e tre dal continente americano (Ecuador, Haiti e Nicaragua).
Nel comunicare i paesi selezionati le Nazioni Unite si sono guardate bene dal dire che in Iraq, ad esempio, le donne sono vittime inascoltate di povertà, violenza e discriminazione. Come ha denunciato più volte la ONG Manos Unidas, il loro ruolo, in una società spiccatamente maschilista, si limita alla cura dei figli e della casa. La mancanza di formazione (la maggior parte delle donne è analfabeta) si riflette nell’educazione che trasmettono ai propri figli. Sin da bambini questa differenza tra I sessi viene esaltata: esiste differenza tra bambini e bambine e ci sono meno opportunità di studio per queste ultime, il che presuppone una proliferazione dei bambini lavoratori e il matrimonio precoce per le femmine.
Ancora peggiore la situazione nella Repubblica Democratica del Congo: qui le donne sono sottoposte a molteplici violenze e le Nazioni Unite lo sanno bene dato che sono proprio i loro inviati a denunciarlo da molti anni, addirittura dal 2006. E in tutti questi anni la situazione non è cambiata, come dimostra il rapporto di Human Rights Watch di poche settimane fa che ha documentato le violenze quotidiane e gli stupri subiti dalle donne per mano dei soldati dell’esercito, che rimangono frequentemente impuniti.
Per cambiare continente, in Turkmenistan la situazione è ancora peggiore: qui esiste un vero e proprio coprifuoco per le donne che se trovate a girare da sole per strada dopo un certo orario rischiano di finire in una centrale di polizia ed essere sottoposte a test antidroga e sulle malattie veneree.
Ma la situazione peggiore forse (e per molti aspetti scandalosa) è quella dell’Arabia Saudita. La situazione dei diritti civili e della parità tra i sessi nel paese è a dir poco arretrata, sottosviluppata. Qui per le donne è difficile anche solo prendere la patente di guida. Figurarsi aprire un conto in banca o praticare uno sport: fino a qualche anno fa, scuole e università statali fornivano lezioni di ginnastica solo per i maschi. Nel paese che è stato scelto come “paladino dei diritti delle donne” esistono 29 federazioni sportive ma non ci sono competizioni femminili. Solo dopo la denuncia di qualche anno fa di Human Rights Watch (che ha chiesto ripetutamente al governo saudita di rispettare il diritto delle donne a praticare un’attività sportiva e al Comitato Olimpico internazionale di prendere provvedimenti contro l’Arabia Saudita), le autorità saudite hanno cancellato il divieto di competere alle Olimpiadi (la prima partecipazione risale al 2012 quando due atlete sono state autorizzate a partecipare ma solo a patto che fossero accompagnate dai rispettivi padri).
Dal punto di vista istituzionale la situazione poi è ancora più incredibile (al limite del ridicolo): alle donne è stato concesso di partecipare al voto per la prima volta soltanto nel 2015. A marzo, l’Arabia Saudita ha diffuso sui media, e con grande enfasi, di aver tenuto la prima riunione del Qassim Girls Council, una conferenza per discutere sul ruolo delle donne. ma tra i partecipanti presenti sul palco non c‘era nessuna donna (e quando è stato fatto notare che a discutere dei diritti del gentil sesso non erano presenti proprio le dirette interessate, gli organizzatori hanno dichiarato semplicemente che “anche” le donne erano state coinvolte nell’evento, ma che avevano dovuto farlo in una stanza separata, dietro le quinte… peggiorando così la situazione). Nelle foto dell’evento non compare nemmeno la principessa Abir bint Salman, ufficialmente a capo del Qassim Girls Council, al suo posto era presente suo marito, il principe Faisal bin Mishal bin Saud, che ha dichiarato che “nella regione guardiamo alle donne come sorelle degli uomini, e sentiamo la responsabilità di aprire loro sempre più opportunità di lavoro”. Quello che non ha detto è che in questo paese una legge dello stato vieta alle donne di frequentare uomini non legati da parentela (difficile quindi incontrarsi al lavoro) e che le donne costituiscono soltanto il 22 per cento del totale della forza lavoro.
Una situazione terrificante tanto che il Global Global Gender Gap nel 2015 ha classificato l’Arabia Saudita al 134esimo posto su 145 paesi per la parità di genere.
Eppure, a breve, anche l’Arabia Saudita sarà chiamata a scrivere e votare le direttive per tutelare i diritti delle donne alle Nazioni Unite. Hillel Neuer, direttore di UN Watch, ha definito la nomina “assurda”, e ha aggiunto “L’elezione dell’Arabia Saudita per proteggere i diritti delle donne è come scegliere un piromane come capo dei vigili del fuoco”.
Di parere diverso Helen Clark, ex amministratore del programma di sviluppo delle Nazioni Unite e primo ministro della Nuova Zelanda che su un social network, ha risposto ai commenti sull’inserimento dell’Arabia Saudita nella commissione dicendo : “È importante sostenere chi lavora per il cambiamento. Le cose stanno cambiando, ma lentamente”.
Dopo la nomina dell’Arabia Saudita alla commissione dei tecnici del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (anche quella accolta con molti dubbi, critiche e polemiche), la situazione purtroppo non è migliorata, anzi. Forse è ancora presto per fare previsioni anche per i diritti delle donne, ma….