L’Ue e la Cina si scontrano a muso duro sulle esportazioni

di Giovanni Caruselli

L’Unione Europea voleva mostrare i muscoli alla Cina deliberando dazi doganali monstre sulle auto elettriche e invece ne è venuta fuori la disunione europea che già conosciamo e che resta comunque imbarazzante. I Paesi che avevano investimenti importanti in Cina, oppure che temevano una dura ritorsione del Dragone si sono più o meno elegantemente defilati, anche se la maggioranza ha salvato la faccia dell’Unione. Le ragioni sono varie. C’è chi ha giocato grosso con gli investimenti in Cina, cioè la Germania, e non può che opporsi alla muraglia doganale, mentre la Francia rischia una buona parte delle esportazioni dei suoi pregiati Cognac, e la Spagna la carne di maiale di cui è stata per molto tempo grande fornitore di Pechino.
Tuttavia da ambedue le parti si è lasciata aperta la porta ad aggiustamenti che probabilmente sono già in corso, e ciò accade perché i due competitor hanno molto da perdere e poco da guadagnare da una guerra fredda commerciale. Si comprende meglio la situazione se si considera che l’ambizioso programma della Nuova via della Seta da parte cinese subirebbe una batosta non da poco se si imboccasse la via del protezionismo e ne venissero contagiate altre aree geopolitiche. Il Dragone difende la sua politica di penetrazione finanziaria e commerciale su scala planetaria affermando che in cambio il grande Paese asiatico realizza infrastrutture importanti, apre fabbriche anche in Europa, partecipa finanziariamente a investimenti di grande importanza, etc. Ma il gioco è troppo scoperto. Si può anche sostenere la teoria del win win, ma il dato di fatto è che se l’Unione Europea accettasse le offerte di Pechino prima o poi resterebbe impegolata come debitrice nei confronti della Cina. Inoltre gli Usa pretendono un allineamento alla loro politica doganale, che i Paesi europei devono accettare con convinzione o obtorto collo. Resterebbero da praticare accomodamenti provvisori. Ad esempio il governo cinese potrebbe fissare un massimo di esportazioni di veicoli elettrici in Europa, concordato con i vertici dell’Unione. Ma anche far passare le auto elettriche dalla Turchia che ha un accordo di unione doganale con la Ue e quindi potrebbe venderle sul mercato continentale senza incorrere in alcun dazio. Fra l’altro la Turchia costruisce in proprio 1.4 milioni di veicoli con investimenti cinesi. La BYD, colosso cinese dell’automobile, si prepara a investire in Turchia un miliardo di dollari per un mega impianto che produrrebbe 150mila automobili l’anno. Probabilmente la notizia ha fatto venire il mal di testa agli amministratori delegati dei marchi automobilistici europei.
Tutta questa vicenda dell’esportazione delle macchine elettriche fa parte del progetto cinese di affermare a qualunque costo una indiscutibile superiorità produttiva del Paese su scala planetaria, cosa assolutamente comprensibile ma inaccettabile. Inaccettabile sia perché potrebbe provocare disoccupazione di massa e instabilità sociale in occidente, sia perché il sistema politico cinese è totalitario con tutto questo che ciò comporta nelle relazioni internazionali. I cittadini cinesi, secondo la dottrina ufficiale di Pechino, non hanno voce in capitolo sulle scelte che si fanno sulle loro teste, e allo stesso modo non ne avrebbero i cittadini dei Paesi che cadessero sotto il controllo totale del Dragone. Dunque alle spalle della competizione economica c’è una competizione fra due modelli statali assolutamente incompatibili. Ciò giustifica le fosche previsioni di chi preannuncia uno scontro militare.
Inoltre, al di là e forse al di sopra delle questioni economiche, ormai gioca un ruolo centrale il problema della sicurezza. Non ci sono dubbi sul fatto che le tecnologie sofisticatissime che viaggiano con internet, ma anche con le macchine elettriche, possono avere usi estremamente pericolosi come lo spionaggio e la sottrazione di segreti militari, o il controllo dell’opinione pubblica, se non addirittura la progettazione di nuove armi. La fiducia reciproca non è mai stata particolarmente nutrita nei rapporti fra le grandi potenze e nei confronti di Pechino l’occidente globale ormai è estremamente prudente. I margini per quella che potremmo chiamare una forma di cooperazione competitiva, un poderoso anacoluto logico, sono diventati troppo stretti. Il sistema concorrenziale, ovunque sia adottato, non è stato mai soggetto a un qualche “codice d’onore” al quale bisogna imperativamente attenersi ufficialmente. Ricordiamoci che nelle città medievali i commercianti al calar della notte erano accompagnati cortesemente fuori dalle mura e si chiudeva loro la porta dietro le spalle con diverse mandate. A buon intenditor poche parole.
Si continua a invocare il ripristino di un mercato libero ma equo. Ma il mercato libero è governato dalla matematica finanziaria, mentre l’equità è un concetto che si colloca nell’ambito della filosofia morale. Che la matematica abbia a che fare con i principi etici nessuno lo ha sostenuto fino ad oggi. Il mercato libero è regolato dal dato di fatto secondo cui il pesce grosso mangia il pesce piccolo, l’equità dovrebbe essere un regime in cui nessuno dei concorrenti viene danneggiato in maniera irreversibile da pratiche definibili come immorali. C’è spazio per utopie di questo genere? Nelle competizioni economiche non basta partecipare, bisogna vincere o piazzarsi bene.