L’Ue vuole l’Ucraina, senza andare troppo per il sottile

di Enrico Oliari

Al tempo della creazione dell’Unione Europea c’era chi, per giustificare un’apposita tassa, andava sbandierando che “avremmo guadagnato di più e lavorato di meno”. Quello che appare evidente è che l’Ue come la conosciamo oggi è a metà di un guado, con alcuni temi messi in comune, ad esempio le politiche agrarie, ed altri di competenza esclusiva dei singoli paesi, come la politica estera. Questo perché per costruire un’Unione vera è necessario che tutti i paesi cedano un pezzo della propria sovranità, leggasi pure i propri interessi sparsi per il mondo, ed in pochi sono disposti a farlo.
Nel frattempo l’Unione Europea non ha mai cessato di allargarsi, fagocitando nazioni spesso disastrate con infrastrutture da costruire, sistema creditizio e quant’altro da rifare, il tutto ovviamente a carico dei contribuenti europei. All’Ue, tra gli entusiasmi e i proclami, hanno aderito negli anni paesi che poi hanno scambiato la Casa comune per un bancomat, fregandosene in modo dichiarato dei valori europei, come nel caso di Ungheria e Polonia, destinatari di procedure di infrazione e con i rispettivi leader che hanno ipotizzato addirittura l’uscita dall’Unione una volta che il paese da ricevente dei fondi Ue dovesse divenire contributore.
In lista per l’entrata nella Casa comune vi sono Albania, Turchia, Macedonia del Nord, Serbia e Montenegro, tutti paesi a cui è già stato dato lo status di “candidato”, ma anche realtà dove l’Europa dovrà intervenire economicamente in modo pesante.
Tra l’altro l’Unione Europea dispensa i soldi dei contribuenti a mezzo mondo, dai palestinesi alla miriade di progetti in Africa, e all’Ucraina ha versato 17 miliardi dal 2014 ufficialmente per sostenere il percorso democratico, in uno dei paesi più corrotti al mondo, dove a dettare legge sono gli oligarchi.
Nel caos della guerra scatenata dall’aggressione russa all’Ucraina, l’Unione Europea ha preferito al ruolo di mediatore quello di trafficante di armi, cosa che ad oggi non ha portato risultati concreti, ma se l’adesione di Kiev alla Nato (come stabilito al vertice di Bucarest del 2008) è ormai congelata, a Bruxelles si stanno facendo i salti mortali per portare l’Ucraina tra i Ventisette. In barba alle procedure, agli step, e a tutti quei parametri di libertà e di democrazia cari agli europei.
Già in marzo il Parlamento europeo aveva chiesto il riconoscimento dello status di candidato dell’Ucraina, e per questa settimana è atteso il parere della Commissione, da dove però è stata fatta notare già oggi la necessità che vengano rispettati determinati requisiti sullo stati di diritto e sulle politiche di lotta alla corruzione. Già alcuni paesi membri hanno lamentato la situazione dello stato di diritto e la debolezza delle istituzioni ucraine, mentre altri hanno fatto notare la mancata tutela delle minoranze: prima della guerra infatti nel Donbass erano stati chiusi i giornali e i media in lingua russa, come pure non era permesso di redigere gli atti pubblici in russo o per i russofoni di ricoprire un pubblico impiego.
Tra l’altro già nel 2015 gli accordi di Minsk-2, sottoscritti anche dall’Ue e dall’Ucraina, impegnavano a costituire entro l’anno le autonomie del Donbass e a rispettare i diritti della minoranza russofona, ma poi non se ne è più fatto nulla salvo mandare a combattere il Battaglione Azov, già accusato dall’Osce nel 2016 di gravi crimini di guerra.
La questione della concessione dello status di candidato dovrebbe arrivare al Consiglio europeo in giugno, ma se il Parlamento europeo è inondato di euforia ed affetto di cecità, le cancellerie europee continuano a dare segnali di perplessità. Anche perché già a Bruxelles si sono dovuti rimangiare l’adesione della Turchia in cambio dell’accordo sull’immigrazione.