L’Unione Europea del “come se ci fosse” non ha un futuro

di Cesare Scotoni –

Il problema è più mediatico che politico. In un’Italia che per oltre 25 anni ha avuto bisogno di invocare i più bizzarri e disparati vincoli esterni per supplire al deficit di credibilità della politica, regalatoci dall’alleato dopo le tensioni sollevate dalle ambizioni craxiane, l’Unione a metà è sempre stata un utile e collaudato pretesto ogni qualvolta si sia voluto marginalizzare il Potere legislativo. Nessun giornale ed alcun opinionista di grido, dopo il fallimento del referendum del 29 maggio 2005 in Francia, ritenne utile sottolineare che con la bocciatura di quel trattato su una Costituzione europea, il progetto di Unione Europea varato a Roma nel 2004 con Prodi alla presidenza della Commissione europea era abortito.
La Comunità, nata dopo la definizione dei Criteri di Copenhagen e l’entrata in vigore con il primo novembre del 1993 dei Trattati di Maastricht, era già in crisi una volta archiviava la firma del Trattato di Roma del 29 ottobre 2004, senza ridiscutere minimamente la governance, le garanzie e le procedure che avevano dato origine a quell’euro cui avevano aderito solo alcuni degli Stati membri. Si limitava invece a ripiegare sugli accordi di Lisbona del 2007. E con quelli cominciava la tragica pantomima della selva di accordi bilaterali finalizzati solo a procedere ad un allargamento che oggi appare essere stato funzionale ad ambizioni estranee a quelle contemplate nel Trattato di Roma del 2004.
Dal 2007 in Italia prevalse una volta di più quella tentazione “dogmatica” per cui era politicamente impraticabile il dubitare di una qualsiasi scelta motivata, in qualche modo passata come “tecnica” dal Quirinale e dalla coralità dei “media” che si rifacevano a quella fonte.
Dubitare quindi di un’Unione Europea in cui i cittadini europei di Olanda e Francia avevano negato nel 2005 la propria fiducia all’Italia, dove pure il Trattato di Roma aveva esplicitato come precondizione al successo di quell’ambizione la necessità di addivenire ad un’unica Costituzione, appariva una condizione preclusiva, minoritaria e riprovevole. E fu quindi “normale” il vedere bocciati dal Quirinale candidature a ministro della Repubblica Italiana personalità di indubbio spessore tecnico e politico, solo per avere dubitato della risposta data con Lisbona alla bocciatura popolare del Trattato di Roma.
Le tensioni tra Berlino e Londra sull’allargamento, poi scoppiate a Kiev nel 2013, le finte garanzie offerte da Francia e Germania all’ONU sugli accordi di Minsk e la Brexit del 2016 hanno solo ulteriormente allargato le distanze che già separavano gli alleati nella NATO fin dalla vicende siriana e libica, ed appariva chiarissimo a tutti che la “finzione” seguita all’estate del 2005 andasse risolta, e che essa vada ancora oggi risolta con la pretesa di un consenso ed una partecipazione democratiche da parte degli elettorati degli Stati Membri. E che dal trattato di Roma del 2004 si debba ripartire. Salvo archiviare quel progetto e ripiegare su quella divisione tra Paesi mediterranei e potenze centrali, etichettata in passato come la “scelta delle due velocità”. Al Quirinale si immagina ora un cambio, già forse per febbraio prossimo, in funzione di ciò che sta accadendo in questi mesi.