Malesia. Impegno del coverno per regolarizzare i rifugiati

di Alberto Galvi

Nonostante ospiti un gran numero di persone in fuga da conflitti e abusi, la Malesia non dispone di un efficace quadro giuridico per regolarizzare la posizione dei rifugiati, e le leggi locali non fanno distinzione tra rifugiati, richiedenti asilo e migranti privi di documenti. La Malesia non è firmataria della Convenzione sui rifugiati del 1951 né del suo protocollo del 1967.
La disparità legale lascia i rifugiati senza il diritto di lavorare o mandare i propri figli a scuola, e li rende vulnerabili all’arresto da parte delle autorità e allo sfruttamento da parte dei datori di lavoro. Molti rifugiati finiscono per lavorare nei ristoranti dove puliscono i tavoli, si occupano del bucato e svolgono altri compiti umili, a volte fino a 16 ore al giorno. Senza protezione legale, molti non ricevono la paga minima nazionale della Malesia di 342 dollari al mese o di 1,64 dollari l’ora, e rischiano di essere truffati dai loro datori di lavoro.
L’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees) non si impegna direttamente in tali controversie, ma cerca di offrire il suo sostegno.
Per contribuire all’economia malese l’UNHCR ritiene che un programma di lavoro volontario consentirebbe ai rifugiati l’opportunità di lavorare legalmente. Il partito Pakatan nell’agosto 2019 ha negato all’UNHCR l’accesso ai centri di immigrazione, impedendo all’organizzazione di identificare rifugiati e richiedenti asilo in detenzione e lavorare per il loro rilascio.
L’alleanza PH (Pakatan e Harapan) ha promesso nel 2018 di legittimare lo status dei rifugiati e garantire il loro diritto al lavoro, ma il piano non fu mai attuato nonostante la storica vittoria elettorale. La coalizione che ha sostituito il partito Pakatan a seguito di un rimpasto ha promesso nuovi sforzi per integrare i rifugiati nella forza lavoro. Il premier Muhyiddin Yassin è stato licenziato dopo 18 mesi di lavoro, anche se ha creato un comitato per esaminare la questione dei rifugiati.
Il governo si è impegnato ad operare per consentire di lavorare legalmente ai rifugiati, specialmente lavoratori di paesi come l’Indonesia e il Bangladesh, sottopagati e impegati nell’edilizia, nei ristoranti e in altri settori.