Marasma migranti in Ue: fra regolamenti e la troppo poca voglia di fare

di C.Alessandro Mauceri

Quando si parla di migranti che attraversano il Mar Mediterraneo si dovrebbe parlare di langrabbing, di sfruttamento da secoli del continente africano e di speculazione da parte di pochi che hanno trovato la gallina dalle uova d’oro nei viaggi di chi è costretto a fuggire.
Oggi questo fenomeno geopolitico è diventato solo due cose: un modo per fare politica per i partiti dei paesi europei e la dimostazione che l’Unione Europea non è un’unione politica ma solo una mera accozzaglia di regole per favorire l’economia dei grandi gruppi lasciando le altre norme spesso disattese o sconosciute.
Per rendersene conto è necessario fare un passo indietro nel tempo. Il tanto citato Regolamento di Dublino, le cui discussioni per una revisione sono state in Italia oggetto di polemiche per l’assenza continua dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, sarebbe solo una della tappe di un percorso quasi trentennale iniziato e ancora non giunto al termine sulla regolamentazione del problema nei suoi vari aspetti.
Nel 1990 a Dublino i rappresentanti di quella che allora si chiamava Comunità europea firmarono una convenzione per determinare quale stato membro fosse competente per l’esame di una richiesta d’asilo. Gli stati membri firmarono una convenzione internazionale che avrebbe dovuto armonizzare le norme e individuare dei criteri condivisi sulla gestione delle domande di asilo, ma va detto che allora i flussi migratori non presentavano numeri così importanti. A quei tempi la Comunità europea era ancora una semplice evoluzione della CEE, ovvero di una serie di accordi meramente commerciali e non aveva che poche competenze su temi sociali. Nel 2003 la convenzione venne trasformata in regolamento europeo vincolante e direttamente applicabile negli stati membri e prese il nome di Dublino II. Da allora non bastarono 10 anni per definire cosa dovesse contenere quel documento. Tra polemiche, la più comune se fosse da applicarsi ai richiedenti asilo o ai migranti in generale: dopo numerosi incontri e riunionii si giunse nel 2013 al Regolamento di Dublino III che introdusse alcune novità, espandendo alcuni ambiti di tutela tra cui lo scambio di informazioni sanitarie a tutela del richiedente. Ma tutto questo non servì a risolvere la questione principale: chi deve farsi carico dei migranti, e cioè non solo dei richiedenti asilo? I paesi di frontiera europea, ovvero Italia, Grecia e Spagna, o tutti i paesi dell’Ue?
Solo nel 2016 venne avanzata una nuova “proposta” di riforma che prevedeva un meccanismo automatico di ripartizione di richiedenti asilo (ancora una volta non si parla di migranti in generale!) tra i paesi membri in base a una “condivisione equa” che tenesse conto del Pil e della popolazione di ogni singolo paese. In base a questa proposta se un Paese superasse del 150% la propria “capienza”, le nuove richieste verrebbero automaticamente spostate in altri paesi dell’Unione.
Fu allora che sorsero i primi problemim di cui non si parla mai e si preferisce strumentalizzare tutto con sterili polemiche politiche. Premesso che l’Italia è tra i paesi occidentali dell’Ue, cioè tra quelli con il Pil più elevato, è comunque quello che ha accolto meno “rifugiati”, per cui la speranza di vedere trasferiti altrove i migranti che sbarcano è molto remota.
A questo si aggiunge un aspetto molto importante, di cui molto raramente si parla: nel momento in cui queste persone (e non semplici numeri) dovessero vedere respinta la propria richiesta d’asilo, verrebbero immediatamente rispedite nel paese di “prima accoglienza”, ovvero in Italia, in Grecia o in Spagna. La regola di rispedirli nel “paese di prima accoglienza” sfavorisce i paesi di confine e per questo è stata molto criticata. Sono state fatte diverse proposte di riscrittura di quella regola: l’ultima del 2018, scritta da Elly Schlein, prevederebbe la sua eliminazione e un ricollocamento automatico degli immigrati “per quote” nei vari paesi europei, e quale sia stata la partecipazione a questi incontri del governo italiano è su tutti i giornali. E mentre se ne continua a parlare, i “dublinanti”, come sono stati definiti i migranti sbarcati in Italia e poi passati nei paesi confinanti e rispediti indietro, hanno raggiunto un nuemro considerevole: solo nel 2018 sono stati 2848 dalla Germania, 1500 dalla Francia, 1103 dall’Austria e 728 dalla Svizzera, solo per citare alcuni paesi. Tutto nel rispetto del Regolamento di Dublino III che l’Italia non ha mai ottenuto di modificare.
Da gennaio 2019 a fine aprile il numero di “dublinanti” rispediti in Italia ha addirittura superato il numero di migranti sbarcati: da gennaio ai primi di maggio 2019 sono sbarcati in italia 857 migranti, nello stesso periodo solo dalla Germania sono stati ben 710 i “dublinanti”. Una dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che quelle riguardanti le ONG e i migranti prelevati in mare sono solo questioni marginali.
A questo si aggiunge un altro problema, tutt’altro che secondario. L’oggetto delle polemiche interne e internazionali è stato sempre concentrato sui migranti che giungono sulle imbarcazioni delle ONG. L’ultimo caso è quello della Ocean Viking che ha sbarcato a Lampedusa 82 migranti di cui metà saranno ricollocati in altri paesi europei che hanno dato la propria disponibilità per la redistribuzione, ma non si sa sotto quali accordi, ovvero se quelli previsti dal Regolamento di Dublino III secondo il quale queste persone fra non molto potrebbero essere rispedite in Italia nel totale silenzio dei media. Una nota di Palazzo Chigi riporta che “Quanto alla vicenda della Ocean Viking si è registrata una forte adesione europea al meccanismo di redistribuzione già attivato nelle scorse ore dall’Italia. Risulta già un’adesione di diversi Stati membri che consentirà un’adeguata e sollecita soluzione”.
Ma nè la nota del governo ne’ i partiti dell’opposizione, polemici sulle politiche adottate parlano del fatto che la stragrande maggiornaza dei migranti che arrivano in Italia non lo fanno sulle navi delle ONG, bensì in modo indipendente. Per una Ocean Viking con poche decine di migranti e che impiega giorni, a volte settimane, per attraccare in un porto italiano, ce ne sono molte altre che arrivano quotidianamente e senza destare clamore. Dalla Tunisia e dalla Libia, tanto per dire. Ma allora a cosa sono serviti gli accordi, le missioni e gli incontri di tutti i governi da decenni a questa parte? E a cosa è servito acquistare satelliti per la sorveglianza del mare? Arrivano quotidianamente imbarcazioni cariche di migranti. Arrivi inarrestabili che sono solo in parte riportati nel rappporto generale del ministero che parla, da gennaio ai primi di settembre 2019, di 5853 sbarchi, per la maggior parte di tunisini ma anchei pakistani, ivoriani, algerini, iraqeni… http://www.interno.gov.it/sites/default/files/cruscotto_giornaliero_13-09-2019.pdf.
Migliaia di persone a volte su pescherecci altre volte su piccole imbarcazioni che i satelliti, le motovedette e nemmeno gli aerei di Frontex sono stati capaci di individuare e che arrivano autonomamente sulle coste italiane. Qui, per loro e per le autorità italiane, inizia un percorso difficile fatto di scarsità di risorse e personale, norme mai attuate del tutto. L’ultima bozza del regolamento di Dublino prevedeva una penale “automatica” di 250mila euro per ogni richiedente asilo respinto da un paese in cui veniva ricollocato. Ma la norma della “quota obbligatoria” non è stata mai riconosciuta da paesi come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Austria.
La verità è che, secondo i dati dell’ISPI, nell’ultimo anno,Italia e Malta sarebbero riusciti a ricollocare in altri paesi europei solo il 5,05 per cento dei migranti arrivati via mare. Tutti gli altri rimangono dove sono sbarcati.
E’ l’ennesima dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che quella europea non è un’Unione completa, una condivisione di principi e regole prima di tutto umane, sociali e politiche, ma solo un’accozzaglia di regolamenti imposti a forza di sanzioni e multe per favorire gli scambi commerciali essenziali per le grandi imprese, le stesse che spesso strappano materie prime dalle mani dei legittimi proprietari nel continente africano e che sfruttano la manodopera a basso costo grazie all’assenza di regole che tutelano ambiente e lavoratori. Tutto il resto rimane un problema dei singoli paesi che restano soli a gestire le frontiere meridionali di tutto il continente. Soli a far fronte, ciascuno a modo proprio ad un problema che riguarda tutti.