Massimo D’Alema, “Grande è la confusione sotto il cielo”

Recensione a cura di Giovanni Ciprotti.

È il titolo dell’ultimo libro di Massimo D’Alema, che raccoglie i contenuti di sei lezioni svolte presso la Link Campus University nella prima metà del 2019 e dedicate ad altrettante questioni di politica internazionale: dal peso degli Stati Uniti al ruolo dell’Unione Europea; dal rapporto dell’Occidente con le potenze emergenti – o riemergenti, per usare le parole dell’autore, come Cina e Russia – ai nodi irrisolti nel Vicino e Medio Oriente; il futuro dell’Africa, anzi, alle Afriche, per la straordinaria diversificazione dei modelli e dei ritmi di sviluppo dei paesi africani.
Un libro agile in cui D’Alema riflette sullo stato di confusione che caratterizza il sistema internazionale e prova a delineare scenari e iniziative per costruire un nuovo ordine mondiale che sostituisca quello disgregatosi con la fine della Guerra fredda.
L’analisi descrive sia i fattori che incidono negativamente sull’equilibrio internazionale sia gli elementi chiave su cui potrebbe essere impostato un nuovo modello di relazioni internazionali.
Tra i primi c’è il rigetto del multilateralismo da parte degli Stati Uniti e l’indebolimento del processo di integrazione politica europea, ma anche la tendenza di alcuni Paesi occidentali a trattare potenze quali Cina e Russia come nemici da combattere piuttosto che come concorrenti con cui misurarsi.
L’autore ripercorre i trent’anni trascorsi dalla caduta del Muro di Berlino e sottolinea la differenza tra gli anni Novanta del secolo scorso, quando gli Stati Uniti erano ancora interessati a proporsi come guida di un nuovo ordine mondiale, e i successivi venti anni nei quali, soprattutto con le amministrazioni Bush jr e Trump, da Washington si è cercato di imporre soluzioni non condivise con gli alleati di sempre, con risultati non soddisfacenti sul lungo periodo.
Quanto alle proposte per un approccio diverso, gli ingredienti sono essenzialmente due: collaborazione internazionale per individuare un nuovo sistema di organismi sovranazionali che, analogamente a quanto accadde all’indomani della seconda guerra mondiale, consenta di migliorare la “governance” globale; riconoscimento, da parte dell’Occidente, delle legittime aspirazioni delle altre grandi potenze regionali, evitando errori quali quello commesso con la Russia negli anni successivi alla disgregazione dell’Unione Sovietica (“[…] la politica di allargamento della Nato fino ai confini russi ha alimentato la percezione di uno stato d’assedio che il Cremlino non può ragionevolmente accettare”).
Nell’auspicato clima di collaborazione l’Occidente, e in esso l’Europa, dovrebbe giocare un ruolo cruciale per evitare che il caos degeneri in qualcosa di molto più pericoloso e devastante.
Alla fine della introduzione, scritta in piena emergenza per il coronavirus, l’autore è abbastanza esplicito:
“Abbiamo davvero bisogno, noi cittadini del mondo occidentale, di una classe dirigente che possa rivendicare con orgoglio i valori della nostra democrazia ma che sappia anche senza arroganza e con la forza della cultura comprendere e rispettare i valori degli altri”.
Un appello a cambiare atteggiamento nel modo di affrontare i conflitti che rendono incandescenti alcune zone del pianeta. A parlare probabilmente non è tanto l’attuale docente, ma l’ex ministro degli esteri italiano che nel 2006 ha avuto, prima e meglio di altri, la capacità di dialogare con entrambe le parti che in Libano si combattevano dopo l’offensiva scatenata da Israele in risposta al rapimento di due soldati israeliani per mano di un commando Hezbollah.
Dopo alcuni infruttuosi tentativi di intavolare trattative, Israele aveva avviato nella zona meridionale del Libano una operazione militare, che nei giorni successivi sarebbe stata giudicata sproporzionata dall’Unione Europea e da una parte consistente della comunità internazionale.
Benché fatto oggetto di feroci critiche per il suo dialogo con rappresentanti politici di Hezbollah, l’allora ministro degli esteri D’Alema riuscì ad organizzare, il 26 luglio 2006, la Conferenza di Roma per cercare una soluzione politica alla crisi tra Israele e Libano. Le critiche originavano dalla posizione giudicata troppo filo-libanese del governo italiano e del capo della Farnesina, accusati di favorire una organizzazione terroristica come Hezbollah.
Non solo era – ed è ancora oggi – riduttivo pensare ad Hezbollah come a un gruppetto di terroristi, ma anche la percezione di terrorista può cambiare a seconda della prospettiva. Il ministro della Giustizia britannico Jack Straw dichiarò nel 1998: “non dimentichiamo che chi oggi è considerato un terrorista potrebbe domani essere definito un combattente per la libertà”. Probabilmente il pensiero del ministro britannico era condizionato dai negoziati di pace per l’Irlanda del Nord, nel 1998 ancora in pieno svolgimento. Ma la storia di altre formazioni sembra confermare l’ammonimento di Straw: Menachem Begin ed Yizhak Shamir, entrambi membri dell’Irgun e del Lehi (gruppi ebraici attivi negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso e considerati terroristici dalla Gran Bretagna, che a quel tempo governava la Palestina), hanno in seguito ricoperto entrambi la carica di Primo ministro israeliano.
Gli accordi di pace si firmano con i nemici, quindi è necessario essere disposti a sedersi intorno al tavolo con essi.
Un pensiero molto lontano dalla condotta dell’attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, il quale nel corso del suo mandato ha disimpegnato gli Usa da una serie straordinaria di accordi e trattati siglati negli anni dai suoi predecessori (il trattato di Parigi sul clima, il JCPOA sul nucleare iraniano, l’INF sui missili nucleari a media gittata, il trattato Open Skies per la sorveglianza aerea reciproca), oltre a svincolare gli Stati Uniti da diversi organismi internazionali, come l’Unesco o più recentemente l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Secondo D’Alema “l’America di oggi sembra preferire un bilateralismo assertivo volto a ottenere vantaggi immediati piuttosto che a rafforzare il proprio ruolo di guida”.
Esattamente il contrario della direzione suggerita dal libro.