Migranti. Codice di condotta: molte Ong non firmano. E resta l’incognita degli aspetti legali

di C. Alessandro Mauceri

La riunione al Viminale con il ministro Marco Minniti si è conclusa con ben poche organizzazioni non governative disposte alla firma del Codice di condotta (Cdc) sul soccorso ai migranti in mare. Già gli incontri dei giorni scorsi non erano bastati a superare i dubbi sulle misure da adottare nel Mediterraneo, per cui oggi le perplessità sul piano proposto dal governo sono diventate per diverse organizzazioni scogli insormontabili.
Il documento portato sul tavolo dagli esperti del Viminale non differisce di molto da quello già visto. Poche le modifiche e su due questioni controverse: la presenza a bordo della polizia armata e il divieto di trasbordo dei migranti su altre unità. La versione finale del CdC prevede che le Ong sottoscrivano “l’impegno a ricevere a bordo, per il periodo strettamente necessario, su richiesta delle autorità nazionali competenti, ufficiali di polizia giudiziaria”, ma “senza recare ostacolo alle attività umanitarie”. Le Ong avevano chiesto che i poliziotti a bordo fossero disarmati, ma la loro richiesta non sembra sia stata accolta. Diversa la situazione per il divieto di trasbordo: l’impegno “a non trasferire le persone soccorse su altre navi” nell’ultima versione del Codice appare addolcito dalla formula “fatta eccezione per i casi richiesti dal competente MRCC” (il Centro di coordinamento marittimo) e “sotto il suo coordinamento”.
Ciò di cui non si è parlato è il problema della legalità di questo “documento”, che è stato già oggetto di discussioni e per diversi motivi. Il primo deriva dal fatto che non si sa ancora che forma avrà il testo, elaborato dal governo italiano con la Commissione europea e Frontex (Agenzia europea della guardia costiera e di frontiera): non si sa se sarà una legge del Parlamento (con i tempi necessari per completare l’iter) o un decreto legislativo o un regolamento comunitario da recepire successivamente.
Inoltre esiste anche il problema su “chi” debba rispettare questo “documento”: “la mancata sottoscrizione” del Codice di condotta o “l’inosservanza degli impegni in esso previsti può comportare l’adozione di misure da parte delle autorità italiane nei confronti delle relative navi, nel rispetto della legislazione internazionale e nazionale, nell’interesse pubblico di salvare vite umane”. Ma impedire l’accesso ai porti italiani alle Ong che non lo avessero sottoscritto costituirebbe una violazione degli accordi internazionali sul mare sottoscritti e ratificati dall’Italia. Secondo molti “è impossibile negare aiuto o chiudere i porti a lungo”. Anche alle Ong che si rifiutassero di sottoscrivere il documento proposto dal Viminale.
La Ong spagnola Proactiva Open Arms (che solo pochi minuti fa ha compiuto un altro “soccorso” di migranti in mare) ha già annunciato che non firmerà. Così anche la tedesca Sea Watch che definisce il documento del Viminale “largamente illegale” e che ha affermato che “non salverà vite umane ma avrà l’effetto opposto. Quello di cui c’è bisogno alla luce degli oltre duemila morti di quest’anno non servono più regole, ma più capacità di soccorso”. Anche Sea Eye ha dichiarato di non voler sottoscrivere la Convenzione anche a rischio di essere bandite dai porti italiani. Medici Senza Frontiere non ha firmato il codice nell’ultima riunione proposta dal Viminale. A confermarlo il direttore generale, Gabriele Eminente. Molte altre organizzazioni, invece, come la tedesca Jugend Rettet, non erano neanche presenti.
Perfino l’Unicef ha espresso un giudizio negativo sul documento del Viminale dicendo che il codice di condotta “potrebbe mettere a rischio molte vite, soprattutto quelle dei bambini”. “Gli obiettivi di rafforzare il quadro legislativo e di sicurezza – non importa quanto giustificabili – non devono impedire inavvertitamente le operazioni per salvare i bambini ed evitare che anneghino”, ha dichiarato Justin Forsyth, vicedirettore generale dell’Unicef.
L’unica certezza, ad oggi, è che in caso di controversia tra il Codice di comportamento proposto dal governo e le leggi internazionali, sarebbero le seconde a prevalere. E queste prevedono norme completamente diverse da quelle inserite nel Codice proposto dal Viminale. A denunciarlo è stata l’ASGI, l’Associazione di Studi Giuridici sull’Immigrazione, che in una relazione sul Codice di Condotta lo ha definito un documento “volontario” e “concordato”. “Ciò è evidente e deriva non solo dalla natura impositiva del processo che ha portato alla sua redazione, ma soprattutto dalla previsione di una sanzione (il diniego di accesso ai porti italiani) per le navi delle Ong che rifiutassero di firmare il CdC o non ne rispettassero le disposizioni”. Un “tentativo di esercitare tale potere normativo attraverso un CdC costituisce, inoltre, un ulteriore esempio di una tendenza inaccettabile a regolare i fenomeni migratori attraverso atti atipici, al fine di sottrarre gli stessi ai controlli democratici e giurisdizionali che costituiscono elementi portanti di una società fondata sullo stato di diritto”.
Ad annunciare invece la firma di Save the Children è stato il responsabile Valerio Neri, il quale ha spiegato che “gran parte dei punti del codice di condotta indicano cose che già facciamo e ci sono stati chiarimenti su un paio di punti che ci preoccupavano, quindi non abbiamo avuto problemi a firmare”. Ha poi aggiunto che “Siamo convinti di aver fatto la cosa corretta e mi dispiace che altre ong non ci abbiano seguito, ma evidentemente avevano altre sensibilità”.
Tra i problemi rilevati dall’ASGI il fatto che il alcune “disposizioni contenute nel CdC hanno il chiaro obiettivo di disciplinare la condotta di navi battenti bandiera di stati terzi all’interno delle acque territoriali libiche o in alto mare”. Eppure, almeno secondo gli esperti dell’ASGI, “l’Italia non ha giurisdizione su tali porzioni di mare ed è altrettanto chiaro che ogni tentativo di esercitare tale giurisdizione costituirebbe un comportamento in contrasto con i principi basilari del diritto internazionale del mare, quale codificato nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (UN Convention on the Law of the Sea – UNCLOS)”
Quanto alla minaccia di non accogliere nelle acque territoriali italiane le Ong che non sottoscrivono l’accordo o non lo rispettano a pieno, l’ASGI fa rilevare che “né i trattati internazionali in materia né la prassi internazionale indicano in alcun modo l’esistenza di una competenza normativa dello Stato del porto relativamente alla navigazione di navi che abbiano svolto attività di ricerca e soccorso in alto mare e richiedano l’accesso al porto”. Per non parlare del fatto che “in linea di principio, uno Stato non può negare l’accesso ai propri porti alle navi che ne battono la bandiera”.
Anzi “l’imposizione di tali condotte alle navi impegnate in operazioni di ricerca e soccorso” (come “la proibizione assoluta del trasferimento di migranti su altre navi (anche quando ciò sia necessario per salvare vite umane) e “di ogni comunicazione luminosa o telefonica con le navi alla deriva”) potrebbe “comportare la responsabilità internazionale dell’Italia, in quanto Stato di bandiera o Stato responsabile per il coordinamento della operazione di ricerca e salvataggio”.
Ma non finisce qui. “Il diniego di accesso ai porti potrebbe anche porsi in contrasto con altri obblighi assunti dall’Italia. In particolare, potrebbe costituire una violazione degli obblighi derivanti dalla Convenzione europea dei diritti umani, di proteggere la vita (art. 2 CEDU) e l’integrità fisica e morale (art. 3 CEDU) delle persone a bordo della nave, che si trovano soggette alla giurisdizione italiana (art. 1 CEDU)”.
Quanto poi all’obbligo alle navi delle Ong di non entrare in acque libiche viene rilevato che “L’obbligo di salvare vite in mare si applica in ogni zona di mare”. L’Italia non può decidere cosa fare nelle acque territoriali libiche. “In conformità all’art. 21.1 UNCLOS (che riflette un principio generale in materia di allocazione delle competenze sovrane in mare): “Lo Stato costiero può emanare leggi e regolamenti, conformemente alle disposizioni della presente Convenzione e ad altre norme del diritto internazionale, relativamente al passaggio inoffensivo attraverso il proprio mare territoriale, in merito a (…): (…) h) prevenzione di violazioni delle leggi e regolamenti (…) di immigrazione dello Stato costiero””.
Un aspetto quest’ultimo che era stato già ripreso proprio dalle autorità libiche. A frenare il fervore del Viminale è stato il colonnello Massud Abdel Samat, diretto interlocutore dell’ambasciata italiana che non ha lasciato dubbi sull’interpretazione del Codice: “Soltanto i nostri guardiacoste libici saranno ingaggiati nella caccia agli scafisti entro le 12 miglia. Su questo punto voglio essere molto chiaro”. “Ho l’impressione che nelle ultime ore siano cresciute troppe voci incontrollate rilanciate dai media e ci sia tanta confusione sul tema. In verità, la situazione sul terreno e in mare cambia di poco” ha aggiunto Massud Abdel Samat. Dello stesso avviso il premier Fayez al-Serraj che ha ribadito che “che ci occupiamo del controllo delle nostre coste”.
Intanto, proprio a proposito delle motovedette, lo stesso Massud Abdel Samat ha riferito una notizia che potrebbe scatenare una diatriba (l’ennesima) internazionale: le imbarcazioni regalate dal governo italiano alla Libia per soccorrere e sorvegliare le acque territoriali sono state oggetto di modifiche da parte delle autorità libiche. Le quattro motovedette classe «Bigliani» consegnate a fine primavera (non senza polemiche) sono state “armate” dai libici che ne hanno fatto vere e proprie navi da guerra: “Abbiamo montato sui loro ponti le mitragliatrici contraeree tipo Doshka e altre di calibro pari a 23 millimetri che disponiamo nei nostri arsenali. Inoltre i tecnici italiani ci hanno aiutato a corazzare in parte gli scafi. Adesso possiamo finalmente usare queste barche anche nella zona di Sabratha”. Ma non basta: il premier libico Fayez al Serraj ha confermato di aver chiesto all’Italia non solo ulteriore sostegno logistico e programmi di formazione della guardia costiera e di frontiera, ma anche altre attrezzature ed armi moderne per le forze armate “per salvare la vita ai migranti e per affrontare i trafficanti di esseri umani”.
In una intervista rilasciata oggi, il giornalista Toni Capuozzo, esperto di politica estera, ha descritto così la situazione: “Siamo al balletto degli equivoci. Una ONG che assume il compito di salvare le persone in mare e di raccogliere i migranti alla soglia o addirittura dentro le acque territoriali libiche, non dovrebbe avere problemi ad utilizzare qualunque porto, visto che non utilizzano quelli più prossimi come previsto dal diritto del mare. E i porti più prossimi alla Libia sono quelli della Tunisia e quelli maltesi”.
Sorge il sospetto che in Italia si stia cercando di agire con fretta eccessiva. Forse nel tentativo di non vedere sfumare almeno parte dei 136 milioni di euro stanziati dall’Unione Europea e dal board del Fondo Ue per l’Africa per rafforzare le capacità delle autorità libiche nella gestione integrata di migrazione e frontiere. Milioni di euro che sono solo una briciola del volume d’affari che ruota intorno al problema “migranti”. Un affare che oggi appare essere un mercato essere sempre più fiorente e proficuo.