Migranti: una nazione ripiegata su se stessa

di Giovanni Ciprotti

“La storia dell’umanità, non sto in forse a dirlo, è la storia delle migrazioni: mutano forma, ma sono sempre emigrazioni”, dichiarava Geremia Bonomelli (1831-1914), vescovo di Cremona e fondatore nel 1900 dell’Opera di assistenza per gli italiani emigrati in Europa e nel Levante.
Gli europei dovrebbero fare tesoro di queste parole. A maggior ragione dovrebbero farlo gli italiani, i quali in quel periodo storico furono protagonisti di un vero e proprio esodo per fuggire dalle miserrime condizioni di vita in patria. Tra il 1900 e il 1920 negli Stati Uniti arrivarono circa 15 milioni di immigrati, di cui 3 milioni erano italiani (2 dei 3 milioni giunsero nei primi 10 anni del Novecento).
Dovremmo ricordarlo, mentre osserviamo con timore, quando non con rabbia, i gommoni carichi di disperati che tentano di approdare sulle coste europee.
Fuggono dalla fame e dalle guerre, da Paesi dell’Africa e dell’Asia che la maggior parte di noi non riuscirebbe neanche a collocare sulla carta geografica. Spesso non sappiamo neanche perché fuggono. Il loro arrivo fa scattare presto o tardi meccanismi di autodifesa: difesa del territorio, difesa del proprio posto di lavoro, difesa della propria identità.
Per il governo, o almeno per alcuni governi, difesa a oltranza dei confini. Da sempre uno dei compiti fondamentali dello Stato, è vero. Ma limitarsi a difendere i confini da un flusso migratorio come quello registrato negli ultimi lustri semplicemente alzando steccati può rivelarsi poco efficace.
Potrebbe essere più lungimirante tentare di agire sulle cause che spingono le persone a fuggire dal proprio paese, ma per capire è necessario studiare, approfondire. Vale per chi governa ma anche per ogni cittadino. È necessario stimolare la conoscenza della storia e delle culture di quei Paesi tormentati da guerre e carestie da cui provengono i profughi che cercano di arrivare in Europa.
Per questo dovremmo aggiornare i nostri programmi scolastici, a partire da quelli di storia. Dedichiamo troppo tempo allo studio dell’era antica, troppo poco alla storia moderna – che è limitata a quella europea – e quasi nulla alla storia contemporanea, ridotta alle due guerre mondiali e al ventennio fascista.
Chiediamo agli studenti di imparare il nome dei figli e delle mogli degli imperatori romani e dei sovrani babilonesi ma li lasciamo all’oscuro delle modalità con cui sono nati l’Iran e l’Iraq moderni. Dai programmi reali restano fuori la formazione dello stato di Israele, la Guerra Fredda, la nascita della Cina comunista, il complesso processo di decolonizzazione in Africa e Asia: periodi relativamente recenti, pressoché sconosciuti ai nostri studenti ma in cui affondano le radici di molti dei contrasti, delle contraddizioni e dei conflitti armati che i notiziari portano nelle nostre case.
Nel 1997 Giuseppe Boffa scriveva che “Il disinteresse per i temi internazionali non è solo della stampa. Nei circoli parlamentari il fenomeno è ancora più diffuso. […] Se non dovesse esserci una reazione, come mi auguro invece ci sia al più presto, sarà in ogni caso dal di fuori che ci arriveranno i più bruschi richiami. Le tempeste del mondo esterno sono oggi più vicine alle nostre frontiere di quanto non siano mai state in passato. I problemi globali, da cui potevamo ritenerci al riparo, ci investono appieno e a poco servono le fragili difese con cui tentiamo di opporci. Assorbiti dalle faccende di casa, possiamo anche pensare poco a quelle degli altri. Ma sarebbe un’illusione soporifera. Chiudiamo pure le nostre orecchie insieme alle nostre porte. Come il Convitato di pietra del Don Giovanni, il mondo si affretterà a bussarvi colpi imperiosi”.
A volte chi bussa arriva a bordo di un gommone!