di Giovanni Caruselli –
La Corte di giustizia dell’Unione Europea ha definito persecutorio il trattamento riservato alle donne afghane dalle leggi del loro Paese. Ciò comporterebbe per esse la fruizione del diritto d’asilo nei Paesi della Ue anche solamente per il loro genere. Purtroppo non è così. La Turchia organizza viaggi forzati di rimpatrio in Afghanistan e in Siria servendosi dei corposi finanziamenti che Bruxelles versa ad Ankara per lo svolgimento di queste operazioni. Nulla può evidenziare meglio l’imbarazzo dell’Unione di fronte al problema migratorio. Ormai è chiaro che non si tratta di un’emergenza, ma di una conseguenza inevitabile della divaricazione riguardo ai diritti umani fra Paesi evoluti e nazioni che teorizzano e applicano per la moralità pubblica principi medievali di governo. Nel 2015 la Ue e la Turchia hanno concluso un accordo sulla base del quale Ankara si sarebbe occupata del blocco delle migrazioni che attraversano il territorio turco in cambio di uno stanziamento da parte di Bruxelles di 11 miliardi di euro. Purtroppo molte testimonianze informano che nei centri di detenzione turchi la violenza, le torture e altre pratiche simili sono all’ordine del giorno. In realtà, per ovvie ragioni di sovraffollamento, questi campi si stanno trasformando in campi di deportazione e chi è fuggito da persecuzioni, povertà e guerre è costretto a ripassare il confine e tornare nel proprio Paese d’origine. Così migliaia di richiedenti asilo sono espulsi senza un adeguato esame delle loro richieste.
Ma il caso della Turchia non è l’unico che denuncia la sgradevole funzione di Paesi extraeuropei di respingere chi chiede aiuto. Di fatto l’Unione ormai da anni sta lavorando per trasformare in guardiani dei suoi confini alcuni Paesi di transito dei migranti come la Tunisia e l’Egitto. Che questa soluzione possa protrarsi sine die non è pensabile. Anche se la Ue versa consistenti contributi finalizzati a integrare stabilmente i migranti nelle strutture educative e lavorative turche, Ankara concede solo protezione temporanea nel senso che gli ospiti sono destinati prima o poi a tornare nei loro Paesi d’origine.
Il progetto formulato negli accordi con la Ue prevedeva la costruzione di sei centri di accoglienza e uno per le espulsioni, ma a partire dal 2015 tali strutture sono state trasformate in prigioni di fatto con muri e filo spinato, sembra in accordo, o col tacito consenso della Ue. I centri di espulsione nel frattempo sono diventati 32 grazie alle sovvenzioni di Bruxelles. Le autorità turche affermano che nei centri di accoglienza sono rigorosamente rispettati i diritti umani dei migranti e che si stanno facendo grandi sforzi per ostacolare e arrestare chi organizza il traffico illegale dei migranti.
La OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, nata nel 1951), che ha sede a Ginevra e raccoglie i contributi di 170 Paesi, porta avanti ricerche e iniziative concrete che considerano la migrazione come un problema che va affrontato sia nella sua globalità sia nei singoli casi specifici. Innanzitutto bisogna ricordare che un percentuale variabile di immigrati può divenire forza lavoro stabile in molti Paesi. È noto che in Italia il settore agricolo ha bisogno di braccia lavorative che non si trovano facilmente e lo stesso vale per l’edilizia, il turismo e altre attività artigianali. Affinché l’integrazione avvenga in maniera ordinata e non caotica e illegale occorrerebbe compilare un elenco di profili professionali e sulla base di essi organizzare nei Paesi da cui provengono i migranti una selezione iniziale, fornendo alle persone interessate una documentazione adeguata a entrare in Italia in maniera legale. Ciò in teoria si fa già, ma la distanza fra le richieste di manodopera degli imprenditori italiani e le quote di immigrazione legittima che vengono rese note annualmente con i decreti flussi mostra che il sistema ha dei limiti. Si tratta di limiti economici. Accettare lavoratori stranieri significa dare ad essi la possibilità di portare con se la famiglia. Trattandosi spesso di etnie molto prolifiche, la spesa per sanità e istruzione dei minori richiede risorse finanziarie non indifferenti. Ad esse si aggiungono le difficoltà dei costi abitativi che il migrante deve sostenere e un supplemento di scolarizzazione specifica per i componenti della famiglia e per i genitori stessi. Si tratta di aiuti pubblici che pesano sulle casse dello Stato e degli Enti Locali. La sponsorizzazione che si richiede al settore privato può alleviare questi oneri ma non risolve il problema. Lo stesso si può dire per le associazioni di volontariato private come la Caritas, che intervengono nel processo di integrazione a puro scopo di beneficenza. Ma la presenza normativa dello Stato manca. Piuttosto si insiste sui rimpatri e su improbabili espulsioni. L’iniziativa italiana di esternalizzare in Paesi terzi la cura dei migranti irregolari in attesa che la loro richiesta di asilo venga esaminata, sembra avere incontrato consensi in altri Paesi dell’Unione, anche se si discute in sede giuridica della sua legittimità.
Probabilmente si potrebbe fare di più ma per due ragioni i legislatori di vari Paesi europei tendono a dare una risposta all’immigrazione in termini securitari e difensivistici. La prima è che gli elettori in maggioranza temono che l’immigrazione faccia crescere la piccola criminalità e dia anche manovalanza alle grandi organizzazioni criminali. Ciò può essere vero, ma la speculazione che alcune parti politiche fanno di queste paure amplifica il rifiuto dell’immigrazione. È noto che nell’Unione quasi tutti i partiti della Destra estrema fanno della questione il loro cavallo di battaglia. La seconda ragione consiste nel timore che una politica aperturista incoraggi i viaggi della speranza rendendo poi troppo difficile la gestione economica e politica del fenomeno. E questo probabilmente rende costantemente variabili e incoerenti le direttive che vengono dai vertici di Bruxelles che vengono interpretate in maniere differenti dai singoli governi nazionali.