
di Giuseppe Gagliano –
Lo Stato del Rakhine, già segnato da anni di violenze etniche e da un conflitto intermittente tra esercito e Arakan Army, è oggi al centro di una catastrofe alimentare che intreccia guerra civile, collasso economico e repressione politica. Secondo il Programma Alimentare Mondiale (WFP), oltre centomila bambini soffrono di malnutrizione acuta, ma meno del 2% riceve cure adeguate. I racconti dei Rohingya, come quello di Ajib Bahar che ha perso il figlio di sei mesi per fame e mancanza di medicine, rivelano l’abisso umanitario che si è aperto in una regione isolata da blocchi militari e carenza di fondi internazionali.
Il blocco imposto dalla giunta militare impedisce all’Onu di portare aiuti oltre Sittwe, la capitale dello Stato, verso le aree centrali e settentrionali. L’Arakan Army accusa il regime di usare la fame come strumento di controllo, mentre a sua volta è responsabile di restrizioni e di un conflitto che limita l’accesso alle cure. Nei campi per sfollati interni, migliaia di Rohingya, già vittime delle ondate di violenze del passato, vivono oggi senza libertà di movimento e con mercati svuotati. La frase disperata di un rifugiato riportata dal WFP – “Se non potete nutrirci, allora sganciateci una bomba” – sintetizza la disperazione di un popolo intrappolato tra blocchi, malnutrizione e abbandono.
La crisi del Rakhine non è solo un dramma umanitario ma anche un fattore di instabilità regionale: il flusso di rifugiati verso il Bangladesh si è intensificato e le autorità di Dhaka denunciano di non poter sostenere oltre un milione di profughi. Stati Uniti e Regno Unito hanno promesso 96 milioni di dollari di aiuti aggiuntivi ai campi in Bangladesh, ma il deficit di finanziamenti resta enorme. L’assenza di accesso sicuro agli aiuti rischia di generare nuove migrazioni e tensioni transfrontaliere, con ripercussioni sulla sicurezza di tutto il Sud-Est asiatico.
Sul piano interno, il generale Min Aung Hlaing usa l’annuncio di elezioni a dicembre come strumento di legittimazione dopo quattro anni di stato d’emergenza. Il voto, che dovrebbe svolgersi solo in metà del Paese a causa dei combattimenti, esclude decine di partiti d’opposizione e lascia in gara solo formazioni vicine ai militari. La “diplomazia dei viaggi” del leader birmano, due visite in Cina e Russia, tappe in Thailandia, Bielorussia e Kazakistan, mira a ottenere appoggi internazionali, soprattutto da potenze autoritarie, e a mostrare un allentamento dell’isolamento.
La Cina resta il partner cruciale per la giunta: fornisce droni e altre attrezzature militari, investe in infrastrutture della Belt and Road (oleodotti, gasdotti, porto in acque profonde) e, con l’incontro tra Xi Jinping e Min Aung Hlaing, ha di fatto concesso un sigillo politico al regime. Anche Mosca, interessata a vendite di armamenti e cooperazione energetica, ha accolto il generale birmano, mentre l’India mantiene contatti tattici per motivi di sicurezza di confine. Questa rete di sostegni consente a Naypyidaw di resistere alle sanzioni occidentali e di presentarsi come attore “accettabile” in certi consessi internazionali, come dimostrato dalla partecipazione al vertice della Shanghai Cooperation Organisation.
Dopo il colpo di Stato del 2021 e la sanguinosa repressione delle proteste, il Myanmar è diventato un paria internazionale: diversi Paesi hanno imposto sanzioni e la Corte penale internazionale ha annunciato la richiesta di mandato d’arresto contro Min Aung Hlaing per crimini contro l’umanità. Tuttavia, la capacità del generale di continuare a viaggiare, incontrare leader stranieri e raccogliere investimenti dimostra i limiti della pressione internazionale, specie in un contesto di crescente polarizzazione geopolitica.
Il Myanmar rimane intrappolato in un circolo vizioso: carestia nel Rakhine, conflitto diffuso, elezioni svuotate, nuove dipendenze da Cina e Russia. L’uso della fame come arma di guerra e l’esclusione politica di vaste aree e minoranze rischiano di produrre un Paese ancora più frammentato, con sacche di ribellione permanente e un’economia bloccata. La comunità internazionale, divisa e distratta da altre crisi, non riesce a imporre corridoi umanitari né un dialogo politico credibile.
Il dramma del Rakhine è così la cartina di tornasole di un Myanmar in bilico tra collasso umanitario e isolamento politico: senza un cambiamento di rotta nella gestione della guerra e senza pressioni coordinate sui sostenitori esterni della giunta, la popolazione civile continuerà a pagare il prezzo più alto, mentre la leadership militare tenta di consolidare un potere che nessuna elezione, così organizzata, potrà legittimare.











