di Giuseppe Gagliano –
Il Myanmar, un Paese spezzato da anni di guerra civile e repressione, ha annunciato il 6 maggio 2025 l’estensione del cessate il fuoco dichiarato dopo il devastante terremoto del 28 marzo, che con una magnitudo di 7,7 ha sconvolto le regioni centrali di Sagaing e Mandalay, lasciando oltre 3.700 morti. La giunta militare, al potere dal colpo di Stato del 2021, ha prorogato la tregua fino alla fine di maggio, promettendo di favorire la ricostruzione e la “stabilità nazionale”. Ma dietro le parole altisonanti si nasconde una realtà ben diversa: un cessate il fuoco che esiste solo sulla carta, mentre il Paese continua a essere dilaniato da violenze e disperazione.
La tregua, inizialmente annunciata dal 2 al 30 aprile, doveva servire a gestire l’emergenza umanitaria post-sisma. Il regime, guidato dal generale Min Aung Hlaing, ha dichiarato di voler “promuovere il soccorso e la ricostruzione” e di puntare a una “pace duratura”. Eppure le accuse piovono da ogni parte. Il Governo di Unità Nazionale (NUG), in esilio, denuncia che la giunta ha condotto 282 attacchi aerei tra il 28 marzo e il 4 maggio, uccidendo 276 civili, tra cui 31 bambini, e ferendone 456. La regione di Sagaing, epicentro del terremoto e roccaforte della resistenza, è stata colpita duramente: 73 raid aerei hanno mietuto 89 vite e lasciato 135 feriti. Anche Mandalay, devastata dal sisma, non è stata risparmiata.
Per alcuni analisti questo cessate il fuoco è poco più che una messinscena. Infatti la giunta cerca disperatamente aiuti esteri per ricostruire un Paese in ginocchio, senza però fermare la macchina da guerra. La visita di Min Aung Hlaing a Bangkok il 16 aprile, un raro viaggio all’estero, sembra confermarlo: l’incontro con il premier malese Anwar Ibrahim, presidente di turno dell’ASEAN, si è concentrato sull’assistenza umanitaria, con Anwar che ha insistito per prolungare la tregua per facilitare gli aiuti. Ma per molti critici, questi dialoghi rischiano di legittimare un regime che non ha alcuna intenzione di cedere.
Sul campo, la situazione è fuori controllo. Gruppi di resistenza come l’Esercito di Liberazione Nazionale Ta’ang e l’Alleanza dei Tre Fratelli, che include l’Esercito dell’Arakan e l’Esercito di Alleanza Democratica Nazionale del Myanmar, hanno dichiarato una tregua per maggio, ma rifiutano di cedere i territori conquistati, nonostante le pressioni della Cina e della giunta. Intanto, il 5 maggio, gli Stati Uniti hanno colpito con sanzioni Saw Chit Thu, un signore della guerra legato alla giunta, accusato di gestire reti di truffe informatiche, tratta di esseri umani e contrabbando transfrontaliero. Premiato nel 2022 da Min Aung Hlaing per “prestazioni eccezionali”, Saw Chit Thu è l’emblema di un sistema corrotto che prospera nel caos.
La crisi del Myanmar è un mosaico di tragedie: un terremoto che ha distrutto vite e speranze, una guerra civile che non accenna a finire, e una giunta che si aggrappa al potere con la forza, mentre il mondo guarda, impotente. La tregua, per ora, è solo un’illusione, e il futuro del Paese resta appeso a un filo.
Le ferite di un Paese in frantumi: il Myanmar tra colpo di Stato e resistenza
Per capire il dramma del Myanmar, bisogna guardare al suo passato recente, segnato da speranze infrante e brutalità. Fino al 1 febbraio 2021, il Paese sembrava avviato, pur con fatica, verso una fragile democrazia, guidata da Aung San Suu Kyi e dalla sua Lega Nazionale per la Democrazia. Ma il colpo di Stato militare, orchestrato dalla giunta di Min Aung Hlaing, ha ribaltato tutto, riportando il Myanmar indietro di decenni. Da allora, il regime ha represso ogni dissenso con una ferocia che ha sconvolto il mondo: migliaia di morti, decine di migliaia di arresti, villaggi rasi al suolo.
La resistenza, però, non si è piegata. Dalle città alle giungle, gruppi armati, milizie etniche e movimenti di disobbedienza civile si sono uniti in una lotta disperata contro la giunta. Sagaing e Mandalay, oggi devastate dal terremoto, sono diventate simboli di questa ribellione, ma anche teatri di una repressione spietata. L’Alleanza dei Tre Fratelli e altri gruppi hanno conquistato territori, sfidando non solo i militari, ma anche le pressioni della Cina, che cerca di mantenere stabilità ai suoi confini.
La comunità internazionale, tuttavia, è rimasta a guardare. L’ASEAN, pur critica, non è riuscita a imporre una linea dura, limitandosi a dialoghi e appelli. Le sanzioni occidentali, come quelle recenti degli Stati Uniti, colpiscono figure come Saw Chit Thu, ma non sembrano intaccare il cuore del regime. Intanto, la crisi umanitaria si aggrava: il terremoto ha lasciato milioni di sfollati, mentre le operazioni militari continuano a seminare morte.
Il Myanmar di oggi è un Paese in frantumi, dove la speranza di pace si scontra con la realtà di un conflitto senza fine. La tregua post-terremoto, estesa fino a maggio, è un fragile miraggio in un paesaggio di rovine. E mentre la giunta si trincera dietro promesse vuote, il popolo del Myanmar continua a pagare il prezzo di un potere che non conosce pietà.