
di Giuseppe Gagliano –
Dopo trentacinque anni di presenza ininterrotta in Niger, il Comitato Internazionale della Croce Rossa è stato costretto ad abbandonare il Paese. Non per scelta, ma su ordine diretto della giunta militare al potere, che lo accusa di “collusione con gruppi armati”. Un’accusa grave, non accompagnata da prove pubbliche, ma sufficiente in un contesto dove l’arbitrio prende il posto della diplomazia, a decretare l’espulsione dell’intero personale internazionale.
L’episodio è tanto più allarmante in quanto colpisce una delle organizzazioni umanitarie più neutrali al mondo, la cui missione è sempre stata quella di intervenire nei conflitti senza prendere parte, dialogando con tutte le fazioni solo per proteggere le popolazioni civili. Ma per la nuova leadership militare nigerina, che da mesi chiede alle ong straniere di piegarsi alla sua “visione”, anche la neutralità diventa sospetta. La Croce Rossa respinge con fermezza ogni accusa: nessun sostegno, né finanziario né logistico, è stato mai fornito ad attori armati. Solo l’apertura di canali di comunicazione per garantire l’accesso umanitario e il rispetto del diritto internazionale. Una prassi consolidata, improvvisamente trasformata in colpa.
Nel 2024 il CICR ha assistito oltre due milioni di persone in Niger, in regioni martoriate dalla violenza jihadista (Difa, Tahoua, Tillabéri e Agadez) e da una crisi alimentare strutturale. Ora, con l’allontanamento forzato della Croce Rossa, si apre un vuoto che nessun attore locale può colmare. E le popolazioni, già vittime del terrorismo e dell’isolamento politico, diventano anche ostaggi della paranoia del potere.
Il Niger sta rapidamente scivolando verso una condizione di chiusura diplomatica. Dopo il golpe, le relazioni con i partner occidentali sono in caduta libera. In parallelo, la giunta si avvicina a regimi come quello dei talebani afghani, instaurando legami con potenze che condividono l’ossessione per la sovranità autoritaria e il controllo totale del territorio. La cacciata della Croce Rossa non è quindi un gesto isolato, ma l’ennesimo tassello di un disegno più ampio: eliminare ogni testimone indipendente, ogni sguardo esterno su ciò che accade nel cuore del Sahel.
L’episodio nigerino lancia un messaggio inquietante: anche le missioni umanitarie possono essere accusate, isolate, neutralizzate. Se una struttura come il CICR può essere espulsa senza prove, qual è il destino delle ONG locali, spesso molto più esposte e fragili? E soprattutto, che ne sarà delle popolazioni civili quando l’unico arbitrato possibile, quello umanitario, viene rifiutato?
Nel silenzio delle cancellerie europee, troppo timorose per protestare apertamente, si consuma un nuovo arretramento della presenza internazionale in Africa occidentale. Un ritiro non solo logistico, ma morale. La guerra contro il terrorismo, la lotta alla fame, il soccorso ai rifugiati: tutto rischia di diventare impossibile se la legittimità delle organizzazioni umanitarie viene messa in discussione dagli stessi Stati che dovrebbero proteggerle.
Colpire la Croce Rossa non è un dettaglio. È un atto che mira al cuore stesso del sistema umanitario internazionale. Significa affermare che non c’è più spazio per la neutralità, che chi non si allinea può e deve essere espulso. In Niger come altrove, si sta affermando una nuova logica: quella del potere assoluto che non accetta né mediazioni né testimoni. E che, nel nome della sicurezza, sacrifica la solidarietà.
Quello che accade oggi a Niamey potrebbe accadere domani a Bamako, Ouagadougou, N’Djamena. Perché quando la Croce Rossa viene cacciata da un Paese in guerra, non è la neutralità a essere sconfitta: è l’umanità intera.