Nigeria. Terra sconvolta non solo dal Boko Haram

Ritratto di un paese martoriato.

di Gianluca Vivacqua –

Mentre in Afghanistan i talebani lanciavano la cosiddetta offensiva di primavera, anche i fondamentalisti di Boko Haram tornavano a farsi sentire in Nigeria con le bimbe-kamikaze. Parliamo dell’attentato del 31 marzo a Maiduguri e di quello del 18 giugno a Damboa: in entrambi i casi, a provocare le stragi sono state delle giovanissime “arruolate”, quattro bambine nella capitale del Borno e due loro coetanee nel capoluogo dell’omonimo distretto, sempre nel Borno. Dire “arruolate”, naturalmente, significa permettersi il lusso di fare un crudele eufemismo: è più che certo che le minorenni utilizzate come carne sacrificale sono una parte dell’ultimo grande bottino umano razziato dai jihadisti nello stato di Yobe, lo scorso febbraio. Ad un precedente carico di prigioniere dovevano invece appartenere le quattro donne (adulte) che il 17 gennaio si erano fatte esplodere in un mercato sempre a Maiduguri. A maggio, nella zona del lago del Ciad, l’esercito regolare è riuscito a liberare un consistente numero di donne nelle mani dei prigionieri (circa un migliaio), ma il problema è che nelle loro mani ne restano molte di più. Di sesso non chiaramente precisato era invece il kamikaze della moschea di Gamburu, che aprì l’anno di sangue nel paese, il 3 gennaio.
Se il Borno è una specie di incrocio tra la striscia di Gaza, il Libano, la Libia, l’Iraq e l’Afghanistan, Maiduguri non è esattamente paragonabile a Tripoli o a Kabul o a Baghdad. O almeno non dovrebbe esserlo. Per una ragione molto semplice: avrebbe dovuto essere, in realtà, più simile a Kandahar, il luogo che nel 1994 vide la nascita del movimento talebano e che due anni dopo – con una ineccepibile coerenza storica – divenne la vera roccaforte del loro regime (nonostante Kabul fosse pur sempre la capitale ufficiale). Analogamente, nel 2002 fu proprio a Maiduguri che Boko Haram – la milizia dei “dispregiatori della cultura occidentale” – vide la luce, eppure la città non è mai veramente caduta sotto il loro totale controllo. Colpa, probabilmente, del fatto che Boko Haram non ha mai avuto la stessa potenza di penetrazione talebana, né nel Borno né tantomeno nel resto della Nigeria, tant’è che, dopo quasi vent’anni di attività, è ancora una forza sovversiva, né più né meno dell’Isis (con cui è stato gemellato, e se ne capisce il perché).
Squassata quasi quotidianamente dalla minaccia jihadista, la capitale del Borno continua comunque a resistere, anche se ha rinunciato da tempo a vivere. Dal 2013 dodici aree della città occupate dai guerriglieri sono sotto coprifuoco permanente. E le spese per il mantenimento dei corpi di polizia negli ultimi anni sono talmente lievitate che non si trovano più i soldi per pagare gli agenti. I quali, proprio all’inizio di luglio, sono scesi in piazza per protestare violentemente. “Pagateci o qui non sarà pace”, dicono i tutori dell’ordine, come se nel resto della Nigeria la pace fosse un risultato garantito.
Non ce n’è, e da tempo, neppure negli stati centrali di Adamawa, Plateau, Taraba, Ondo, Jigawa, Kaduna e Benue, dove si combatte da alcuni anni una guerra sociale tra contadini e agricoltori non meno cruenta di quella al terrorismo. In queste regioni, per il possesso delle terre e dell’acqua, stante la desertificazione del Ciad, sono contrapposti i pastori nomadi, musulmani di etnia Fulani (la stessa che, in Mali, si sospetta abbia legami con al Qaeda), e gli agricoltori stanziali, di religione cristiana. Ad avere la peggio sono proprio questi ultimi, in una misura non più lieve di quella che la ferocia di Boko Haram potrebbe colmare. La verità è che anche i Fulani si sono organizzati in milizie armate, spesso difficilmente distinguibili da quelle degli estremisti del Borno, che hanno anch’essi con i cristiani un sanguinoso conto in sospeso. Il bollettino dell’ultima battaglia, avvenuta nel Plateau il 25 giugno, parla di 86 agricoltori periti.
E dove non arriva la mano armata dell’uomo, arrivano le calamità epidemiche: parliamo del colera che dal 2002 mette in ginocchio, ad intermittenza, lo stato del Gombe, nel nord-ovest del Paese. Il flagello si è riaffacciato alcuni giorni fa, nell’omonima capitale, con la morte di tre scolari il 26 giugno e la messa in quarantena di trenta loro compagni. Ma il vibrione ha già fatto nuovamente in tempo a dilagare, e il 29 giugno il Guardian dà notizia di un secondo focolaio, sviluppatosi nel carcere centrale: un detenuto è morto e altri otto sono stati ricoverati d’urgenza in ospedale.