Nucleafrica

di Enrico Oliari * – 

nucleL’Africa. Terra incantata, fatta di foreste, di deserti e di savane, un eldorado dai mille popoli, dalle infinite specie animali e dalle ricchezze inesauribili: è così che ci piace immaginarla, quando la nostra mente non si ferma ai conflitti eterni che la percorrono, eredità, spesso, di un colonialismo sbagliato e che ha in più occasioni ha saputo solo educare all’odio interetnico. E pattumiera del mondo ‘civile’, crocevia di traffici morali ed immorali, talvolta denunciati da testimoni coraggiosi e scomodi, quando non martiri della verità come fu Ilaria Alpi; talvolta nascosti sotto due dita di sabbia, quel tanto che basta perché non esistano, perché noi siamo mai esistiti.
Si è sempre parlato delle navi cariche di rifiuti tossici volutamente affondate, dei veleni sistemati nei magazzini sparsi qua e là per l’Africa. Come pure si è detto molto delle scorie nucleari, risultato ingombrante di quelle centrali che illuminano le case europee o che sono essenziali nella diagnostica sanitaria. Ma arrivare a toccare con mano, se non altro, l’ombra di quel nemico silenzioso ed insidioso, è altra cosa.
Arriviamo nella zona di El Hamma, Tunisia centrale, all’imbrunire, quasi defilati per non dare nell’occhio ad una città imprevedibile, dove lo straniero desta ancora qualche sguardo. Gli abitanti non sono pochi, ma l’immensità del deserto che circonda la piccola cittadina fa sembrare le case, affacciate su una strada molto trafficata, un puntino nel nulla. I giovani affollano i pochi caffè intenti a vedere la partita trasmessa via satellite e ad assaporare il fumo dei profumati narghilè, mentre le mani aprono nervose i semi di girasole acquistati nelle piccole botteghe per poche frazioni di dinaro.
A portarci da quelle parti è stata una voce, come ce ne sono tante, apparsa su internet: qualcuno denunciava i morti di cancro in famiglia per quei rifiuti, portati dai trafficanti europei, oltre la collina di Glib Dokhan, in un’ampia zona militare inaccessibile, dove si fanno le esercitazioni con i cannoni.
Sono serviti mesi di ricerche per individuare il posto, tanto che abbiamo reperito la prima traccia dell’ubicazione della collina su una cartina dell’epoca del protettorato francese, del 1895: da allora gli indizi si sono sommati e ci hanno guidato ad una quindicina di chilometri ad ovest di El Hamma, nei pressi di un insieme di oasi situate dopo il piccolo centro abitato di Ben Ghilouf.
Raggiungiamo la nostra meta già al mattino presto, dopo aver incrociato sulla strada fatta di saliscendi qualche mezzo militare e quando ancora l’altoparlante del minareto intona la preghiera del mattino.
“Ricordo che anni fa sono passati da queste parti numerosi camion carichi di cemento, diretti alle zone che il governo ci aveva espropriato e che non ci ha mai risarcito, – racconta Mohammed, allevatore, mentre i suoi dromedari ci guardano incuriositi e fanno scorrere fra le labbra carnose i ramoscelli di arbusto – ci saremmo aspettati la costruzione di un grande impianto: con tutto quel cemento avrebbero potuto costruire chissà cosa, ed invece nulla, sembrava che il deserto li avesse inghiottiti”. Se tanto cemento non va dal terreno verso l’alto, è chiaro che scende verso il basso. “Poi altri camion neri, strani, – riprende – un via vai durato per diverso tempo”.
Google Earth non mostra nella zona alcuna costruzione, se non una casermetta e qua e là qualche piccolo edificio isolato. Si vede la terra bruciata dalle granate dell’artiglieria e alcuni ammassi neri che ci riferiscono essere bersagli da esercitazione.
nucle1Spostandoci di qualche decina di metri sentiamo però uno strano fruscio, come di piccole cascate d’acqua e scorgiamo strane strutture, come enormi radiatori di cemento sui quali è lasciata cadere l’acqua che viene succhiata dal sottosuolo. E difatti il vapore che ne esce non lascia spazio a dubbi: l’acqua pompata dalla falda acquifera è così calda che viene debitamente raffreddata in superficie, prima di essere incanalata.
E’ impossibile ottenere informazioni dalle rarissime contadine che, avvolte nel velo, fanno fare ai loro asini carichi larghi giri per evitare gli stranieri. E’ un uomo sulla quarantina, a fermarsi, quasi a voler svelare l’aneddoto degli intrusi nella vita calma di sempre: “Queste costruzioni raffreddano l’acqua che viene raccolta dal sottosuolo e che arriva da Glib Dokhan, la collina che spunta sul deserto, ad una ventina di chilometri di distanza”. La collina che nasconde le scorie radioattive?, gli chiediamo secchi. E lui: “Se ne è sempre parlato, ma nessuno ha mai potuto sapere se vi è un fondo di verità o se sono fantasie”. Già, nessuno, perché la zona è inaccessibile e da quelle parti non si scherza, anche se siamo nel periodo post-rivoluzionario. Così, ben al riparo da sguardi indiscreti ed ancor più dalle jeep dell’esercito che scorrazzano sulla strada attigua (siamo nel deserto: è tutta pianura), appoggiamo a ridosso di una delle vasche che raccolgono l’acqua di Glib Dokhan il contatore Geiger che abbiamo portato con noi, accuratamente nascosto della borsa della videocamera da turisti spaesati e incantati.
Bingo! Siamo fra le 10 e le 40 volte superiori ai limiti naturali, in un ambiente desertico e sprovvisto di fonti naturali radioattive, come potrebbe essere l’uranio che si cela sotto le nostre Alpi.
Decidiamo di seguire le canaline che trasportano l’acqua, ancora calda, ed arriviamo ad un serbatoio, che sapremo poi essere uno dei molti punti di distribuzione per gli usi civili. Sorge a pochi metri da alcune serre e vi escono tubi di gomma che scorrono lungo le file di pomodori, che in questo modo vengono annaffiati e crescono in ambiente temperato anche d’inverno. Il coltivatore non sa nulla di radioattività, ne’ noi ci sbilanciamo: “Io coltivo pomodori – ci racconta – ma non per i tunisini: sono destinati al mercato europeo, dove me li pagano bene”.
E’ la legge del contrappasso, pensiamo noi: le immondizie di noi europei ritornano, sotto forma di pomodori rossi.
Torniamo ad El Hamma che è ormai sera ed un negoziante del posto ci spiega dell’impressionante aumento dei casi di tumore fra la popolazione, curati, per quanto possibile, nella lontana Sfax, dove c’è un centro dedicato.
Sorseggiamo un ultimo tè, non sappiamo con quale acqua sia fatto ne’ ci teniamo a saperlo. Pensiamo ai veleni che vanno a sud, agli immigrati trattati come veleni che vengono a nord.
Lasciamo El Hamma con i campioni di terreno che faremo analizzare una volta rientrati, mentre per la via centrale passa un uomo in bicicletta che, a squarcia gola, annuncia il nome dell’ultimo defunto che ha lasciato la comunità.

* Hanno collaborato all’inchiesta: Saber Yakoubi, Ghazy Eddaly, Bessem Ben Dhaou.