Onu. Il relatore Alston, ‘c’è il rischio di un apartheid climatico’

di C. Alessandro Mauceri

Il pianeta rischia una sorta di “apartheid climatico”, con i ricchi che non corrono il rischio di morire di fame e “il resto del mondo lasciato a soffrire”.
E’ pesantissimo il giudizio lanciato da Philip Alston, relatore speciale dell’Onu sull’estrema povertà nel suo rapporto al Consiglio dei diritti umani dell’Onu.
Secondo Alston le misure adottate finora nel mondo per far fronte al problema sono “palesemente inadeguate” e non saranno in grado di salvare la Terra dal “disastro imminente”.
Quali misure? Innanzitutto quelle che riguardano i cambiamenti climatici in atto. Anche “l’irrealistico scenario migliore di 1,5° C di riscaldamento entro il 2100, vedrà temperature estreme in molte regioni e lascerà alle popolazioni svantaggiate insicurezza alimentare, perdita di reddito e peggioramento della salute”. ”Molti dovranno scegliere tra fame e migrazione”.
Se a questo si aggiunge che, dopo il cambio al vertice degli Usa, sembra essersi ridotto sensibilmente l’interesse di molti paesi (non pressati da accordi internazionali vincolanti) per la riduzione delle emissioni, la situazione appare davvero preoccupante.
A confermarlo come sempre sono i numeri, nonostante l’ostinazione negazionista di alcuni. Nei giorni scorsi l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm) ha confermato di aver registrato temperature estreme in Kuwait e Pakistan nel 2016 e nel 2017. Temperature talmente alte da aver sfiorato il valore più elevato mai registrato da un termometro sulla superficie della Terra.
In diverse zone del pianeta queste temperature anomale stanno causando danni notevoli alla popolazione. Lo scorso anno, a Città del Capo in Sud Africa la siccità causò carenza di riserve idriche che provocarono seri problemi alla cittadinanza: l’acqua venne razionata ai limiti previsti dalle Nazioni Unite per la sopravvivenza, 50 litri al giorno a persona.
Poche settimane fa è stata la volta dell’India: a Chennai, la sesta città più popolosa dell’India e capitale dello stato meridionale di Tamil Nadu, i bacini idrici che riforniscono la città risultano praticamente asciutti e milioni di persone cercano di sopravvivere con la poca acqua portata con le autobotti.
Anche in Italia, i segnali dei cambiamenti climatici in atto sono evidenti: Fridays for future ha lanciato una petizione per spingere Roma a proclamare l’emergenza climatica e ambientale.
Tutto inutile. Sembra che si tratti di problemi che ai paesi ricchi non sembrano interessare. Solo pochi giorni fa, il 20 giugno, a Bruxelles i membri dell’Ue non sono riusciti a raggiungere un accordo sul clima. L’obiettivo di fissare emissioni nette zero entro il 2050 (e una forte diminuzione entro il 2030) per i 28 stati membri è fallito miseramente, pare sotto la spinta di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Estonia.
“L’Europa, terza al mondo dopo Cina e Stati Uniti in termini di emissioni di CO2, rischia ora di arrivare senza un impegno comune al summit sul clima organizzato per il 23 settembre dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres”, ha scritto un importante giornale francese.
Sì, perché è questo il vero problema, l’aspetto più importante di tutte le politiche introdotte o desiderate e mai attuate dalle Nazioni Unite: a pagare il prezzo dell’inquinamento e delle scelte dissennate dei paesi “sviluppati” sono gli “altri”, i paesi più poveri quelli che non sono minimamente responsabili delle emissioni di CO2, dei cambiamenti climatici globali, dello scioglimento delle calotte polari e, in una parola, della stragrande maggioranza dei problemi causati da paesi come gli Usa, l’Europa o il Giappone, “aiutati” da alcuni paesi emergenti come la Cina o l’India.
Le parole pronunciate da Philip Alston risuonano come una triste verità: “Il cambiamento climatico minaccia di annullare gli ultimi 50 anni di progressi nello sviluppo, nella salute globale e nella riduzione della povertà”. Una realtà ben nota a tutti, ma che sembra non interessare a chi siede nelle stanze dei bottoni, dove le sole parole che entrano non sono certo quelle dell’adolescente ambientalista di turno (negli ultimi decenni, se ne sono viste diverse) o dell’attore improvvisamente convertito alla salvaguardia della natura (anche di questi se ne sono visti molti) o del politico improvvisamente interessato alla salvaguardia della natura, e la lista in questo caso è lunghissima. In quelle stanze entrano solo le multinazionali, grandi industrie e banche, soggetti ai quali interessa poco sapere quante persone moriranno a causa delle loro politiche dissennate ma redditizie, almeno nel breve periodo. Eppure, come ha detto Alston, i cambiamenti climatici “potrebbero condurre oltre 120 milioni di persone in più in povertà entro il 2030”. “Ancora oggi – ha aggiunto – troppi Paesi stanno facendo passi miopi nella direzione sbagliata”.
Poveri che inevitabilmente aumenteranno i flussi di migranti e i problemi internazionali che già oggi i Paesi “sviluppati”, si pensi ai problemi dei migranti dall’Africa nel Mediterraneo o a quello che accade in America, e le grandi organizzazioni hanno dimostrato di non essere capaci di gestire, ad esempio, il problema della fame nel mondo o quello dei rifugiati e molti altri.
“Perversamente, mentre le persone in povertà sono responsabili solo di una frazione delle emissioni globali, sopportano il peso dei cambiamenti climatici e hanno la minima capacità di proteggersi”. ”Rischiamo uno scenario di” clima apartheid “in cui i ricchi pagano per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti mentre il resto del mondo è lasciato a soffrire”.
Leggendo il rapporto di Alston sembra di sentire più un grido di rabbia che un asettico lavoro di ricerca. Un grido però che difficilmente riuscirà a cambiare il modo “perverso” in cui sono gestite le problematiche ambientali.