Onu. Nairobi: Aria, acqua e alimenti inquinati. Lo dicono il Global Environment Outlook – 6

di C. Alessandro Mauceri

Durante i lavori dell’United Nations Environment Assembly, a Nairobi, sono stati resi noti i risultati dell’ultimo rapporto dell’ONU sullo stato del pianeta: Global Environment Outlook – 6 (GEO), per molti la valutazione ambientale principale dell’ONU. La sua importanza deriva dal fatto che fa riferimento agli obiettivi principali delle Nazioni Unite, che risalgono alla risoluzione dell’Assemblea generale che ha istituito il Programma ambientale delle Nazioni Unite nel 1972. È sulla base dei risultati contenuti nel Global Environment Outlook che i paesi aderenti all’Onu devono valutare l’efficacia della risposta politica alle sfide ambientali e le possibili vie per raggiungere gli obiettivi concordati a livello internazionale.
“I dati scientifici sono chiari. La salute e la prosperità dell’umanità sono direttamente legate allo stato del nostro ambiente”, ha detto la direttrice ad interim dell’United Nations environment programme (Unep) Joyce Msuya, “Questo rapporto ci dà delle prospettive per l’umanità. Siamo a un bivio. Continueremo sulla via attuale che porterà a un futuro oscuro per l’umanità, o adotteremo una via dello sviluppo sostenibile? E’ la scelta che i nostri leader politici devono fare, subito”.
Aria, acqua, alimenti: buona parte di ciò che è essenziale per la vita e la salute umana oggi appare seriamente compromesso. È questo il risultato al quale sono giunti i 250 scienziati di 70 Paesi dopo sei anni di ricerche.
I numeri riportati nel rapporto sono impressionanti: un quarto delle morti premature e delle malattie nel mondo sono collegate all’inquinamento provocato dall’uomo. “I danni causati al pianeta sono così gravi che, se non verranno prese delle misure urgenti, la salute delle popolazioni sarà sottoposta a delle minacce crescenti”. “Se le misure di protezione dell’ambiente non verranno considerevolmente intensificate, nelle città e in intere regioni in Asia, in Medio Oriente e in Africa potrebbero verificarsi milioni di decessi prematuri entro la metà del secolo”. Il rapporto prevede che “A causa degli inquinanti presenti nei nostri sistemi di acqua dolce, la resistenza anti-microbica diventerà la prima causa di decesso” entro pochi anni e che “I perturbatori endocrini danneggeranno la fertilità degli uomini e delle donne, così come lo sviluppo dei bambini”.
L’inquinamento atmosferico, e i prodotti chimici che hanno contaminato l’acqua potabile e mettono a rischio l’ecosistema, è responsabile del “25% circa della mortalità e delle malattie a livello mondiale”, nove milioni di morti solo nel 2015. Altri 1,4 milioni di persone che muoiono ogni anno per malattie legate alla scarsità o assenza di acqua potabile. E poi gli agenti chimici: molti di questi quando non uccidono direttamente, arrivano nei mari e provocano effetti negativi sulla salute a livello “potenzialmente multi-generazionale”. La deforestazione e il degrado del suolo che colpisce aree sempre più vaste della terra privando 3,2 miliardi di persone della possibilità di vivere (e costringendole a migrare) e causando gravi problemi geopolitici: lo studio evidenzia che, al contrario di quanto promesso fino ad ora negli ultimi decenni, il divario tra Nord e Sud del pianeta, tra paesi ricchi e paesi poveri, sta aumentando.
Sono anni che si sentono ripetere sempre le stesse raccomandazioni. Sembra quasi di essere tornati alla COP21 di Parigi, con buona parte dei leader mondiali riuniti, sorridenti e festosi dopo aver partecipato a decine di cene incontri e banchetti. Allora apparve evidente che molti dei problemi non sarebbero stati risolti (ne parlammo tre anni fa, subito dopo la fine dei lavori, in un libro dal titolo Guerra all’Acqua).
Oggi la situazione non solo non è migliorata, ma è peggiorata. Che la strada intrapresa era quella sbagliata è evidente: le NU hanno dovuto ammettere che molti degli Obiettivi Sostenibili del Millennio, SDGs non potranno essere raggiunti.
Le misure adottate sono state finora quasi del tutto inutili: le emissioni di CO2 sono aumentate, l’utilizzo delle risorse idriche del pianeta peggiora giorno dopo giorno e, invece di prendere seri provvedimenti negli incontri che si tengono ormai con cadenza mensile si pensa a distrarre la gente con appelli fatti dal bambino di turno (l’ultimo, a Davos, quello di Greta, diventata ormai una star mediatica, al punto che c’è chi ha proposto di conferirle il premio Nobel) o dall’attore ultrafamoso (Di Caprio è stato recentemente sostituito da Harrison Ford)… Anche i vari ultimatum ormai non fanno più molto effetto. L’ultimo ieri: “Si impongono delle misure urgenti, perché ogni ritardo nell’azione per il clima aumenta il costo della realizzazione degli obiettivi dell’Accordo di Parigi o annulla i nostri progressi, rendendoli semplicemente impossibili”.
Parole che non cambieranno lo stato delle cose. Da decenni sappiamo che è necessario “adottare dei regimi alimentari meno ricchi di carne e di ridurre lo spreco alimentare nei Paesi sviluppati e in sviluppo, il che ridurrebbe la necessità di aumentare la produzione alimentare del 50 % per nutrire i 9 – 10 miliardi di abitanti del pianeta previsti entro il 2050. Attualmente, il 33% degli alimenti commestibili prodotti nel mondo vengono sprecati e il 56% di tutti i rifiuti sono prodotti nei Paesi industrializzati” come riportato nel rapporto GEO-6. Ma di sprechi alimentari e impronta idrica si parla da tantissimi anni!
O che sarebbe meglio arrestare la folle corsa verso la costruzione di megalopoli: “Può offrire una possibilità di migliorare il benessere dei cittadini, riducendo allo stesso tempo la loro impronta ambientale grazie a una governance migliorata, alla gestione del territorio e alle infrastrutture verdi. Inoltre, degli investimenti strategici nelle zone rurali ridurrebbero le pressioni esercitate sulle popolazioni perché emigrino”. Ma anche di questo si parla da anni. E con il risultato che il numero di megalopoli con oltre dieci milioni di abitanti continua ad aumentare.
Che bisognerebbe ridurre i rifiuti si sa da tantissimo tempo. Il rapporto GEO-6 ha invitato i leader mondiali a prendere “misure per limitare la quantità degli 8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici riversati negli oceani ogni anno”. Ma gli stessi ricercatori ammettono che sarà difficile ottenere risultati concreti dato che “benché il problema sia stato oggetto di un’attenzione crescente nel corso degli ultimi anni, non esiste ancora un accordo internazionale sulla questione dei rifiuti marini”.
La verità è che di “ambiente” si parla da decenni: dai tempi del protocollo di Kyoto. E già allora, per non dar fastidio alle grandi industrie e ai paesi maggiormente responsabili dell’inquinamento globale, venne introdotto il principio della “compensazione”.
Il punto è che fare qualcosa di utile per l’ambiente richiede investimenti, a lungo andare, decisamente meno costosi dei disastri causati dai cambiamenti ambientali o dei danni (si pensi al costo per la sanità pubblica) sulla salute dei cittadini, ma che nel breve e medio periodo non permetterebbero alle multinazionali di continuare a fare utili. A loro interessano i numeri immediati. Quelli legati al fatturato. Malattie e inquinamento, per la maggior parte di questi mostri con fatturati superiori al PIL di un piccolo paese, significano un giro d’affari multimiliardario al quale non nessuno, oggi, pare essere disposto a rinunciare.