Operazione militare turca in Siria: l’ennesimo errore dell’occidente nella regione mediorientale

di Giuliano Bifolchi * –

Mercoledì 9 ottobre le forze militari turche hanno iniziato un’operazione militare nella Siria del nord con l’obiettivo dichiarato dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan di eliminare la minaccia terroristica nella regione e contrastare le forze siriane curde del YPG (Unità di Protezione Popolare), considerate anch’esse da Ankara come una organizzazione terroristica.
L’azione turca rischia di far piombare l’area in una nuova escalation militare con ripercussioni sulla popolazione civile e sulla fragile stabilità regionale raggiunta a stenti e con difficoltà negli ultimi anni a seguito dello scoppio della guerra civile siriana nel 2011, che ha visto l’affermazione di diversi gruppi terroristici nella regione e l’ascesa dello Stato Islamico.
Il tutto è stato possibile grazie al tacito assenso degli Stati Uniti ,che nei giorni scorsi hanno deciso di ritirare i propri soldati dalla regione settentrionale siriana perché, secondo le parole del presidente Donald Trump, la presenza militare statunitense nel Medio Oriente è costata miliardi di dollari e centinaia di vite al paese.
La comunità internazionale ha reagito come al solito attraverso comunicati ufficiali e richieste in questo caso al governo turco di ponderare la propria azione militare nella Siria settentrionale per evitare una crisi umanitaria. Mosca, tramite le parole del ministro degli esteri Sergei Lavrov in visita ieri in Kazakhstan, ha tenuto a precisare come la decisione di Washington di ritirare le proprie truppe, e quindi non supportare ulteriormente le forze curde del YPG con il quale aveva collaborato nella lotta contro lo Stato Islamico, sia avvenuta in maniera repentina e senza consultare gli altri attori impegnati nella regione. Teheran invece ha dato il via al confine con la Turchia ad una serie di esercitazioni militari non programmate con l’intento di “mostrare i muscoli” al governo di Ankara.
Washington ancora una volta ha deciso di abbandonare un alleato con il quale aveva combattuto un nemico comune, in questo caso lo Stato Islamico, sottolineando la propria incuranza nei confronti delle dinamiche regionali estere e anche un limite di analisi sugli sviluppi geopolitici. Quanto avvenuto con i curdi siriani trova un collegamento con l’Afghanistan quando la Casa Bianca, dopo aver supportato i mujahiddin afghani nella lotta contro l’Armata Rossa nella Guerra Russo-Afghana (1979-1989), decise di abbandonare il popolo afghano chiudendo addirittura la propria rappresentanza diplomatica nel paese lasciandolo quindi alla progressiva affermazione di quei talebani che nel 2001 Washington si trovò a combattere dopo l’11 Settembre nell’ottica della politica di Guerra al Terrore.
Se l’impegno militare in Medio Oriente è stato esoso a livello economico ed umano per gli Stati Uniti, bisogna però ricordare a Trump che l’invasione dell’Iraq nel 2003 avvenne per il pretesto che l’allora governo di Saddam Hussein stesse sviluppando armi non convenzionali che minacciavano l’intera stabilità regionale e la sicurezza internazionale. Non è possibile infatti dimenticare il discorso dell’allora segretario di Stato statunitense Colin Powell alle Nazioni Unite nel quale mostrava prove, rivelatesi poi infondate, dell’esistenza di armi non convenzionali sul territorio iracheno e di presunti legami del governo di Baghdad con al-Qaeda. Invasione dell’Iraq che fece cadere Saddam Hussein, impose un governo sciita che represse la minoranza sunnita e comportò una destabilizzazione mai sanata che fu alla base dell’ascesa dello Stato Islamico che si palesò poi come atto compiuto nel 2014 quando Abu Bakr al-Baghdadi tenne il suo famoso discorso al mondo intero dalla moschea di Mosul.
Proprio quello Stato Islamico che in Iraq e Siria vide come primi baluardi le forze curde locali che tutti i media vollero esaltare per il loro coraggio e sacrificio nella lotta al terrorismo che però, dopo la caduta delle principali roccaforti jihadiste di Mosul in Iraq e Raqqa in Siria, finirono presto nel dimenticatoio.
Una memoria breve anche per quanto riguarda la Turchia, paese che era divenuto un vero e proprio hub logistico di smistamento di foreign fighters verso la Siria e l’Iraq e che, secondo quanto affermato nel 2015 dal ministero della difesa russo e supportato con un video, commerciava illegalmente petrolio con lo Stato Islamico. Turchia accusata anche di reprimere la libertà di espressione, le minoranze etniche nel paese e di aver creato un regime con Erdogan che ben si distanzia da quei principi democratici spesso sbandierati da Bruxelles e Washington quando si tratta di confrontarsi con i paesi dell’area mediorientale.
Una Turchia però troppo importante dal punto di vista strategico e militare sia per l’Unione Europea che per gli Stati Uniti che negli ultimi tempi ha usato l’arma del ricatto per poter non essere contrastata nelle proprie azioni di politica estera.
Per l’Europa la Turchia è fondamentale nella crisi migratoria e oggi su tutto il territorio turco vivono più di tre milioni di rifugiati usati come pedina di scambio o deterrente da Ankara nei confronti di Bruxelles. Territorio turco basilare anche per la sicurezza energetica europea visto che al suo interno passa il gasdotto trans-anatolico (TANAP) che congiunge il gas naturale prodotto nell’area azerbaigiana del Mar Caspio con la Grecia per poi farlo giungere in Europa attraverso il gasdotto trans-adriatico (TAP) che dovrebbe vedere come suo ultimo terminale l’Italia. E nello scontro tra Bruxelles e Mosca scaturito a seguito della Crisi Ucraina il settore energetico è vitale come è fondamentale per l’Unione Europea diversificare le proprie importazioni energetiche per dipendere sempre meno dal gas di quella Federazione Russa che oggigiorno è vista più come un nemico che come un partner nelle sfide del XXI secolo.
Turchia che ospita la base aerea di Incirlik gestita dalla Air Force statunitense (USAF) vitale per Washington perché al suo interno vengono raccolti il maggior numero di ordigni nucleari statunitensi nell’area europea (90 ad oggi) che svolgono l’azione di deterrente (o minaccia) nei confronti della Repubblica Islamica dell’Iran e della Federazione Russa e rappresentano un monito della forza militare degli Stati Uniti in tutta l’area euroasiatica. E sempre il governo turco aveva ‘spaventato’ gli Stati Uniti giungendo ad un accordo per la consegna dei missili S-400 russi provocando la dura reazioni di Washington che aveva minacciato di escluderlo dal programma di realizzazione degli F-35 e di imporre sanzioni economiche, parole che fino ad ora sono svanite nell’aria, ma sono state sostituite da un velato consenso statunitense per l’operazione militare turca iniziata ieri nella Siria del Nord preceduta da un palese tradimento verso i curdi siriani.
Qualora Ankara continuasse la sua operazione militare tramite il dispiegamento delle proprie forze militari via terra l’occidente non potrà meravigliarsi delle conseguenze a livello sociale, politico e della sicurezza, perché la crisi umanitaria e una possibile destabilizzazione sono le dirette conseguenze dei conflitti nella regione mediorientale. Sembra che l’Occidente non riesca comprendere una lezione basilare, ossia che continui stravolgimenti e destabilizzazioni nell’area mediorientale (e se si vuole estendere il discorso anche in quella nord africana e centroasiatica) dovuti ai giochi di poteri e al posizionamento sullo scacchiere geopolitico internazionale non fanno altro che creare terreno fertile per l’affermazione di gruppi terroristici e organizzazioni criminali e produrre quella crisi migratoria che Bruxelles da anni cerca di risolvere o gestire con esiti sempre più deludenti.
Tradire i curdi, come è stato tradito il popolo afghano e quello iracheno in passato per non parlare poi di quello libico, del dimenticato Yemen e di tutte quelle popolazioni che sono state interessate da conflitti e scontri geopolitici, non fa altro che provocare sentimenti di odio e vendetta contro quei poteri forti occidentali che inizialmente si erano mostrati amici e poi, una volta raggiunto il loro scopo politico o economico, avevano abbandonato i propri alleati lasciandoli al loro destino.

* Giuliano Bifolchi. Direttore della OSINT Unit di ASRIE e analista geopolitico specializzato nel settore Sicurezza, Conflitti e Relazioni Internazionali. Laureato in Scienze Storiche presso l’Università Tor Vergata di Roma, ha conseguito un Master in Peacebuilding Management presso l’Università Pontificia San Bonaventura specializzandosi in Open Source Intelligence (OSINT) applicata al fenomeno terroristico della regione mediorientale e caucasica. Attualmente svolge un progetto di ricerca sul Caucaso del Nord presso l’Università Tor Vergata di Roma.

Articolo in media partnership con ASRIE