Pansciismo contro sionismo: l’ultima guerra

di Marco Corno –

Henry Kissinger in un articolo per il Washigton Post affermò: “Perché negoziare con un paese (l’Iran) che ha dimostrato una tale ostilità ed evasività? Proprio perché la situazione è così tesa. La diplomazia può ottenere come risultato un accordo accettabile; oppure il suo fallimento mobiliterà il popolo americano e il mondo, rendendo chiare o le cause di una escalation della crisi fino al livello di una pressione militare o quelle di una sostanziale acquiescenza al programma nucleare iraniano. Qualunque sia il risultato, esso esigerà la volontà di guardare fino in fondo alle sue implicazioni finali. Non ci possiamo permettere un disastro strategico” (1).
Con queste parole Kissinger sottolineava tutta la sua preoccupazione circa lo scoppio di un conflitto bellico tra Iran ed Israele che rischierebbe di cambiare per sempre il volto non solo del Medio Oriente ma anche della stessa America. Infatti, a partire dalla Guerra dell’Iraq del 2003, gli stati arabi hanno conosciuto una progressiva erosione non solo dei propri confini ma anche della propria sovranità a vantaggio di organizzazioni non statali che hanno fatto sprofondare il paese di Saddam Hussein in una sanguinosa guerra civile (2005-2007), ponendo un grosso freno al processo di istitution building ex cathedra americano. Inoltre, l’antonomasia di questo “rebus” si è tradotta nell’ascesa al governo di Baghdad di un’amministrazione arabo-sciita, guidata dal presidente Al-Maliki, permettendo così all’Iran di realizzare la propria revanche di influenza nella regione.
Israele dal canto suo ha sempre avuto una sorta di “sciismo-fobia” risalente agli anni’70 del secolo scorso quando, la “politica dei due pilastri” israelo-americana, basata su un dominus dialettico del cliché medio-orientale tra Iran (allora ancora grande alleato del blocco occidentale) e Arabia Saudita, crollò nel 1979 con la rivoluzione islamica iraniana che rese l’ex Impero Persiano una grande teocrazia sciita nemica di Israele. La sciismo-fobia ebraica si è trasformata in una vera e propria “ossessione strategica” a partire dal 1982 quando, nel corso dell’invasione del Libano, nacque Hezbollah, il movimento di resistenza libanese, che, dimostrando grande ordalia, costrinse Tel Aviv a combattere una lunga guerra di logoramento conclusasi solo nel 2000 con la ritirata delle truppe israeliane dal paese, segnando la prima vera sconfitta dello stato Ebraico dalla sua nascita (1948). I motivi sono molteplici: innanzitutto l’IDF (Israel Defence Force) ha dimostrato nel corso della sua esistenza una perspicua forza d’attacco nel breve periodo, essendo una grande forza terrestre, ottenendo grandi vittorie con la prima Guerra Arabo-Israeliana (1948-1949) e nella Guerra dei 6 giorni (5-10 giugno 1967) ma il repentino logoramento contro il “Partito di Dio” ha avvalorato l’inefficienza della macchina da guerra ebraica nel lungo periodo. Secondo, la sconfitta è stata anche geopolitica perché mentre Tel Aviv attuava una politica rapsodica del quadro etnico libanese, premendo sui contrasti etnici, Hezbollah ha adottato il concetto di jihad difensiva applicato tout court al popolo libanese, indipendentemente dalla propria vocazione religiosa, compattandolo contro il nemico sionista e bloccandone l’infiltrazione nel territorio.
Sempre negli anni’80, il confronto tra Iran e Israele si è “combattuto” anche all’epoca della Guerra tra Iran-Iraq (1980-1988) durante la quale, di fronte all’impantanamento dell’URSS in Afghanistan e all’inizio della sua decadenza”, lo stato ebraico appoggiò, grazie anche all’aiuto delle potentissimi lobby israeliane dell’AIPAC (American Israel Pubblic Affairs Committee) vicine al Congresso Americano, la dottrina militare del dual containment (doppio contenimento) di Washington elaborata allora da Martin Indyk, responsabile degli affari medio-orientali del National Security Council, contro sia Teheran che Baghdad, al fine di indebolire la loro influenza nel Golfo, permettendo a Tel Aviv di assumere un ruolo di rule maker della regione.
La grande occasione israeliana di sconfiggere l’Iran e di creare una vera e propria pax israeliana (si legga anche come pax americana) giunge con la caduta dell’URSS (1989), la cui scomparsa lascia un grande vuoto geopolitico in Medio Oriente.
Bernard Lewis, storico anglo-ebreo nonché uno dei massimi esponenti dei neo-con americani, elaborò la teoria del cosiddetto “Grande Medio Oriente”, ovvero una grandissima area geopolitica estesa dal Marocco alle Repubbliche Asiatiche centrali, creatasi con la dissoluzione del blocco sovietico. Secondo lo storico, gli USA sarebbero dovuti penetrare in questa zona, attribuendosi lo ius novorum di istituire un nuovo ordine, non solo per fini di procurement energetico ma, anche e soprattutto, per aiutare Israele a sconfiggere in primis l’Iran e gli ex alleati di Mosca, come la Siria di Hafez Al-Asad, stringendo un’alleanza strategica con la Turchia, paese NATO e storica avversaria dell’Impero Persiano, isolandoli e stagliandoli in tanti piccoli stati etnici: due stati arabi sunniti, due stati sciiti-alawiti e due stati kurdi, rispettivamente uno iracheno e uno siriano, dirimendo la nascita di un possibile front runner antiisraeliano e l’appoggio ad organizzazione terroristiche come Hamas. Tale visione dei neo-con cristiano evangelici è in perfetta simbiosi con la politica estera sionista che già a partire dagli anni’90 ha incominciato ad appoggiare il Kurdistan Iracheno di Mohamed Barzani e il PDK (Parti Dimurkati Kurdistan). Erbil viene considerata da Tel Aviv una delle “basi militari israeliane” più importanti della regione dato che, confinando con Teheran, le permette di addestrare i kurdi iraniani del PJAK in territorio iracheno colpendo poi l’Iran dall’interno. Ma il divide et impera israeliano si manifesta anche nella regione del Caucaso con l’appoggio esplicito di Tel Aviv a Baku. Del resto, Melman, uno dei massimi esperti di intelligence israeliano, ammetteva:” apparentemente, Israele e Azerbaijan sono una strana e male assortita coppia, ma dall’altra parte Israele non è mai troppo selettivo nella scelta degli amici quando si tratta di vendita di armi e di interessi nazionali. Un rapido sguardo alla mappa mostra che l’Azerbaijan confina con l’Iran, nemico giurato di Israele”. Chiaramente, oltre ad interessi energetici comuni, l’alleanza con Baku costituisce una condicio se qua non per controbilanciare l’”asse sciita” (Iran-Siria-Libano) in continua espansione, mostrando ancora una volta di più che la cosiddetta “dottrina periferica” israeliana, ovvero un piano geopolitico volto a trovare alleati lontani dallo stato ebraico in grado di ostracizzare il nemico iraniano e tenerlo lontano dai confini della “terra promessa”, è concepita, strictu sensu, nella piena logica di realpolitik siccome Tel Aviv stringe relazioni importanti con un paese principalmente mussulmano sciita contro un altro stato sciita, esasperando quindi le diatribe storiche tra i due.
Con lo scoppio delle Primavere Arabe il processo di frammentazione degli stati della regione si è ulteriormente accentuato trasformando il Siraq in un enorme campo di battaglia tra potenze regionali con le rispettive super potenze alleate. Le rivolte del 2011, vennero considerate da Israele come un atout per deporre l’ultimo regime alleato dell’Iran, la Siria, e istituire un regime ad hoc ma la resistenza degli alawiti al potere e l’intervento della Russia in guerra ha “rovesciato la scacchiera”. Non solo il mondo sciita non si è arrestato, ma al contrario è penetrato sempre di più in Medio Oriente avvicinandosi ai confini israeliani, circa 80.000 miliziani, e l’inaspettato Accordo sul Nucleare Iraniano del 2015, voluto dall’amministrazione Obama, ha legittimato de facto la cosiddetta “mezzaluna sciita iraniana” nella regione, ambiziosa di creare una grande area di influenza sciita estesa da Teheran fino a Beirut includendo anche il Bahrein e le minoranze sciite dell’Arabia Saudita.
Israele si è quindi resa conto della necessità di promuovere uno iato importante con la Russia, il genius loci della regione dal 2015 in poi, sperando il riargino dello sciismo dalle aree limitrofe del paese. Il vertice Putin-Netanyahu del 12 luglio 2018 è volto proprio a conseguire questo obiettivo oltre che cercare un nuovo protettore ad Israele dopo i ripetuti fallimenti americani degli ultimi anni.
Pertanto, è legittimo chiedersi se scoppierà una guerra tra questi due paesi. In verità l’Iran e Israele sono in guerra da almeno 10 anni, una guerra “sotto banco” perpetrata dai Pasdaran e dal Mossad tramite sequestri, assassini, spionaggio e cyberwar come avvenne nel 2008 (un attacco cyber israeliano mise fuori uso le turbine delle centrali nucleari persiane).
Il Medio Oriente nel XXI secolo sta vivendo la sua “Guerra dei Trent’anni” il cui esito sarà determinato dallo scontro, probabilmente, tra lo sciismo e il sionismo (insieme agli USA) che cancellerà tutto il sistema post-Sévres (1920) e darà vita ad un nuovo ordine regionale.

Note:
1 – Giacomo Gabellini, Israele: geopolitica di una piccola grande potenza, Arianna Editrice, Bologna 2017, p.188.