Per sempre profughi. Crescere e vivere nel campo palestinese di Shatila

di Vanessa Tomassini

BEIRUT. Bambini che corrono in ciabatte, qualcuno scalzo allunga la mano per chiederci qualche soldo, altri trascinano una bombola di gas da cucina o una tanica d’acqua che fanno fatica a sollevare, mentre reflussi d’acqua rossastra inondano i vicoletti del campo di Shatila, una città nella città, a pochi minuti dai lussuosi palazzi della modernissima Beirut. Salendo sul tetto di una di quelle case, arrampicandoci su una scala di metallo appoggiata ad un muro, perdiamo il fiato di fronte all’immensità di quel chilometro quadrato. Lo sguardo si perde tra i colori delle tende, tetti coperti da teli di plastica per evitare le infiltrazioni d’acqua piovana, tra i container per l’acqua, i cumuli di spazzatura da un lato, e gli schiamazzi dei bambini che chiamano i loro amici per le strade. C’anche un uomo di un’ottantina d’anni che lavora chino sul tetto della sua abitazione nell’intento di voler alzare un altro muro, o almeno, posa l’ennesimo mattone su quella torre di cemento che ospita un’infinità di anime, come un castello di carte da gioco o una pila di scatolette di fiammiferi che dalle fogne si alzano l’una sull’altra fino a toccare il cielo. Dimenticati da anni, nessuno ne parla più di questo “luogo non luogo”, almeno dallo scoppiare della crisi siriana. Eppure i siriani sono anche lì, si confondono e si aggiungono alle sofferenze del popolo palestinese. Esattamente a Shatila oggi vivono almeno 22 mila famiglie palestinesi, alle quali si sono aggiunte, anno dopo anno, oltre 20 mila famiglie siriane. Passiamo, con qualche timore, tra quei vicoli coperti da intrecci di matasse e matasse di cavi elettrici appesantiti dall’acqua. Mentre i bambini scorrazzano e ci chiedono di farsi fotografare di fronte quei muri colorati, sormontanti da una pioggia di bandiere e poster di eroi che si sono battuti contro gli Stati Uniti ed Israele, da Yasser Arafat a Che Guevara, passando per Saddam Hussein, oltre alle foto di quei politici che non fanno nient’altro che strumentalizzare la loro causa per poi lasciarli ammazzare dai cavi di corrente o da un prossimo raid israeliano con il solito pretesto di Hezbollah, o della presenza di armi. “Ci ammazzeranno tutti e nessun presidente arabo muoverà un dito per noi”. Ne è sicuro Aref mentre ci spiega che “qui la gente è morta per le fughe di corrente dai cavi scoperti”. Aref è un uomo sulla quarantina, in abiti civili, in realtà una delle autorità del campo, che da una stanzetta, controllano dozzine di telecamere da due maxi schermo che sembrano proiettare la sceneggiatura di un film. A Shatila la realtà, che si espande dal 1949, supera ogni fantasia. Tutti hanno promesso di non dimenticare quando nel 1982, tra il 16 e il 18 settembre, Israele e le falangi libanesi massacrarono in questo campo circa 3.500 civili.
Bei ragazzi dai tratti mediorientali siedono giocando a carte e fumando narghilè. Con i capelli ingellati e i jeans alla moda, lasciano i motorini a bordo delle stradine con fare da playboy, come quelli che incontri d’estate a Riccione, facendoci dimenticare di essere in un campo. Anche perché Shatila non è più un campo profughi. La maggior parte di questi giovani sono nati qui, forse anche i loro genitori. Hanno aperto le loro attività, barbieri, negozi di frutta, sartorie, abiti da sposa. C’è di tutto. Continuando a camminare tra l’acqua che arriva quasi alle caviglie per la pioggia che non intende cessare, da una tenda un uomo ci offre un caffè. “Ho vissuto in Germania, ma sono libanese. A mia moglie parlo tedesco!” ci dice sorridendo, poi il discorso si anima. “I nostri politici sono tutti corrotti. Ora vogliono vietare le vendite in strada agli ambulanti. Qui la gente non ha da mangiare. Ho 3 figli, tutti laureati e senza lavoro. E loro si preoccupano dei carretti della frutta che sporcano le loro strade!”. Si scusa per aver alzato la voce, mentre gli occhi si fanno lucidi. Di fronte a noi un ragazzino di 7 o 8 anni spazza via l’acqua e il fango dalla sua bancarella di frutta e verdura, dalla quale ci offrono una deliziosa fragola, la più gustosa che avessimo mai mangiato. Poco più avanti una donna stende il bucato, mentre a terra un fornellino a gas sta preparando un caffè. Quattro ragazzini giocano a biliardo, mentre sorridenti si fanno fotografare. “La gente non ha più niente. Continuano ad arrivare famiglie siriane e palestinesi da altri campi del nord del Libano. Nessuno parla più di noi palestinesi da quando è iniziata la guerra in Siria, eppure abbiamo aperto le nostre porte a tutti. I bambini hanno bisogno di supporto psicologico mentre la droga è il nostro più grande problema”. Mentre parla, il telefono di Aref si accende, sullo schermo c’è la foto di un bambino. “È morto due mesi fa, aveva due anni”. Sebbene la gente sorrida, quel senso di morte si respira ovunque. Dai murales, ai quadretti dei ritratti di giovanotti con la kefiah, ammazzati da Israele, dalla droga o dalle falangi libanesi. Quando la vita diventa insopportabile, ricorrere a una pastiglia di tramadolo o altre droghe sintetiche sembra normale, un comportamento giustificato. La “sicurezza” del campo ha fermato un ragazzino di 15 anni. “Muhannad mi ha detto di prendere le pastiglie. Le vendono là, nella piazzetta!” Confessa singhiozzando con gli occhi stropicciati. Piange per colpe che non ha, per l’inconsapevolezza delle cause e degli effetti di ciò che stava facendo. I bambini, buttati per le strade di Beirut giornate intere ad elemosinare, in ogni angolo, ad ogni metro della vivace Hamra, li rivediamo tra questi vicoli con gli occhi sporchi, il naso che gocciola e i piedi nell’acqua mentre a meno di 1 km, come per volere di un Dio sadico, la gente più fortunata passeggia lungomare o sorseggia un cocktail vista mare, che non ha nulla da invidiare al nostro caffè nel campo. Il migliore che abbiamo bevuto a Beirut. Mentre ce ne andiamo, un bambino intraprendente ci propone: “Resta con noi per sempre”, ma Mohammed più timido confessa: “E’ bello che tu sia qui, ma sarebbe altrettanto bello se potessimo anche noi visitare l’Europa”.

Shatila. (Foto: Notizie Geopolitiche / VT).