Persecuzione per orientamento sessuale e migrazione: quali le tutele per i migranti LGBT da parte della normativa in materia di protezione internazionale?

di Roberta D’Onofrio –

È del 14 ottobre scorso la dichiarazione del portavoce del presidente ugandese Yoweri Museveni il quale ha affermato che in Uganda non sarà introdotta la pena di morte per il “reato” di omosessualità, peraltro già punito con l’ergastolo. Il passo indietro del Parlamento ugandese sul tema della penalizzazione dei gay con la pena capitale ha fatto seguito all’ampia risonanza che ha avuto la notizia, diffusasi soltanto qualche giorno prima, della volontà del governo del Paese di introdurre un nuovo “Uganda Anti-Homosexuality Act”, meglio noto come“Kill the Gays”, la normative approvata dal Parlamento del Paese il 20 dicembre 2013 invalidata dalla Corte Costituzionale semplicemente per irregolarità tecniche. All’indomani delle dichiarazioni rese da Simon Lokodo, ministro dell’Etica e dell’Integrità, che ha denunciato “(…) un massiccio reclutamento da parte di persone omosessuali nelle scuole, e in particolare tra i giovani, dove stanno promuovendo la falsità secondo cui le persone nascono in quel modo. La nostra attuale legge penale è limitata. Criminalizza solo l’atto. Vogliamo chiarire che chiunque sia anche coinvolto nella promozione e nel reclutamento deve essere criminalizzato. A coloro che commettono gravi atti verrà inflitta la condanna a morte” (1), “il mondo e donatori internazionali come l’Unione Europea, la Banca Mondiale, gli Stati Uniti e il Fondo Globale hanno dichiarato di monitorare attentamente la situazione e di difendere i diritti delle persone LGBT+” (2).
Il caso ugandese pone all’attenzione dell’opinione pubblica una questione di ancora oggi poco si parla. Stiamo parlando della criminalizzazione dell’omosessualità in Africa e del legame tra persecuzione per orientamento sessuale e flussi migratori. Il rapporto di Amnesty International del 6 novembre evidenzia con chiarezza la gravità della situazione attuale. In circa 20 Paesi africani l’omosessualità è considerata illegale. Dalle pene “più lievi” (carcerazione di un anno in Liberia e Zimbabwe, 2 anni in Algeria e Chad, fino a 3 anni in Marocco, Ghana, Guinea, Togo e Tunisia, fino a 5 anni in Libia e Camerun, si passa a quelle più pesanti (dai 7 ai 10 anni di reclusione in Eritrea e nel Sud del Sudan) fino ad arrivare alla carcerazione a vita prevista, oltre che in Uganda ed in altri Paesi dell’Africa centrale, quali Zambia, Kenya e Tanzania, anche in Gambia e Sierra Leone.
“La Nigeria ha bandito le relazioni omosessuali. Da quando, nel gennaio 2014, il presidente nigeriano ha approvato alcuni emendamenti alle leggi esistenti le condizioni di detenzione sono diventate più dure e la punizione molto più severa: il massimo della pena è 14 anni di carcere. Nella Nigeria settentrionale è prevista invece la pena di morte” (3). Già nel 2008 la nota (4) dell’UNHCR contenente indicazioni sulle domande di status di rifugiato nell’ambito della Convenzione del 1951 relative a orientamento sessuale e identità di genere poneva l’accento, alla luce del crescente numero di domande di asilo inoltrate da persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (“LGBT”) soggetti a persecuzione, nei rispettivi Paesi di origine, a causa dell’orientamento sessuale, sulla necessità di una maggiore attenzione, nell’ambito dell’applicazione della legislazione in materia di diritti di asilo, alle esperienze specifiche dei richiedenti asilo LGBT, affermando che “Gli individui LGBT possono essere soggetti ad abuso e discriminazione di natura fisica, sessuale e verbale da parte delle autorità dello Stato e delle loro famiglie o comunità a causa di chi essi sono o di chi sono percepiti essere. Ciò può avvenire a causa delle norme sociali e culturali prevalenti, che risultano in intolleranza e pregiudizi, o a causa di leggi nazionali che riflettono tali atteggiamenti. Quando queste azioni di abuso e discriminazione restano impunite e/o quando l’orientamento LGBT è perseguito penalmente, tali individui possono, se essi chiedono asilo su queste basi giuridiche, rientrare nella definizione di rifugiato così come contemplata dalla Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati (“Convenzione del 1951”)” (5).
Spesso, nonostante la nota dell’UNHCR stabilisca, al punto 21, che “(…) Può essere riscontrata persecuzione anche quando non vi sono informazioni definitive che evidenzino che nel paese siano realmente applicate leggi che considerano reato la condotta omosessuale. Questo può avvenire quando lo Stato cerca di mascherare la sua criminalizzazione delle persone LGBT al mondo esterno, ad esempio perseguendole per presunti crimini di stupro, molestie di minori o per crimini legati al consumo di stupefacenti. Inoltre un elevato onere della prova rispetto ai crimini, tra i quali rigidi requisiti delle prove ammesse, non dovrebbe essere considerato come indicazione di una minore probabilità di applicazione, ma deve essere letto nel contesto religioso e sociale. Un clima di pervasiva e/o generalizzata omofobia nel paese d’origine (se ad esempio il governo mostra la sua disapprovazione attraverso una dura retorica anti-omosessuale, se le persone LGBT sono represse e sorvegliate dalle loro famiglie o dai vicini o se i media usano stereotipi negativi per descriverli) può essere considerato un’indicazione del fatto che le persone LGBT sono perseguitate (6)”,si è assistito a frequenti forme di respingimento delle richieste di asilo di soggetti che hanno dichiarato l’orientamento sessuale quale motivo di fuga dai Paesi di origine per mancanza di prove certe fornite dagli stessi. A tal proposito bisogna rilevare che già nel 2008 l’UNHCR stabiliva, relativamente all’onere della prova, che “L’autoidentificazione come LGBT dovrebbe essere considerata come un’indicazione dell’orientamento sessuale dell’individuo. Se è vero che alcuni richiedenti saranno in grado di fornire dimostrazione della loro condizione di LGBT, ad esempio attraverso dichiarazioni di testimoni, fotografie o altre prove documentarie, non è necessario che essi documentino l’attività nel paese d’origine che indichi i loro differenti orientamento sessuale o identità di genere. Quando il richiedente non è in grado di fornire evidenza del suo orientamento sessuale e/o vi è una mancanza di informazioni specifiche sul paese d’origine, la persona incaricata di decidere in merito dovrà fare affidamento solo sulla testimonianza di quella persona. Se il resoconto del richiedente appare credibile, a egli/ella dovrebbe essere dato il beneficio del dubbio, a meno che non esistano buone ragioni per fare il contrario” (7).
Recentemente (8) la Cassazione ha accolto il ricorso di un cittadino ivoriano cui la Commissione territoriale di Crotone aveva negato la protezione internazionale perché dalle dichiarazioni rese dall’uomo “non si evinceva una situazione di pericolo grave per la persona derivante da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato o interno” (9). Tenendo conto del fatto che, dinanzi alla Commissione, l’ivoriano aveva richiesto la protezione internazionale per il pericolo corso dalle persone omosessuali nel proprio Paese in quanto egli stesso, musulmano e sposato, aveva deciso di fuggire dal proprio Paese dopo l’uccisione dell’uomo con il quale aveva intrattenuto una relazione omosessuale. La richiesta era stata respinta dalla Commissione territoriale sulla base del fatto che la legge della Costa D’avorio non contempla il reato di omosessualità. In risposta a ciò, facendo seguito al ricorso presentato dall’uomo, la sentenza 11176 della Corte di Cassazione del 23 aprile 2019 aveva statuito che: “Se infatti, qualora un ordinamento giuridico punisca l’omosessualità come reato, questo costituisce, di per sé una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini, che ne compromette la libertà personale e li pone in una situazione di oggettivo pericolo (Cass. 26969/2018), l’assenza di norme che vietino direttamente o indirettamente i rapporti consensuali tra persone, dello stesso sesso, non è, di per sé, risolutivo ai fini di escludere la protezione internazionale, dovendo altresì accertarsi se lo Stato, in tale situazione, riconducibile alla previsione dell’art. 8, lett. d), non possa o non voglia offrire adeguata protezione alla persona omosessuale, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 5, lett. c), e dunque se, considerata la concreta situazione del richiedente e la sua particolare condizione personale, questi possa subire, a causa del suo orientamento sessuale, ex art. 8, lett. d), la minaccia grave ed individuale alla propria vita o alla persona e dunque l’impossibilità di vivere nel proprio paese d’origine senza rischi effettivi per la propria incolumità psico-fisica la propria condizione personale (10)”.
Ai fini dell’attribuzione della protezione internazionale, pertanto, appare doveroso e necessario tener conto di una tematica, quella della persecuzione per orientamento sessuale, spesso non considerata nelle opportune sedi, laddove una più rilevante importanza viene assegnata, ai fini della determinazione dello status di rifugiato, a situazioni più manifeste e facilmente comprovabili, quali persecuzioni politiche e religiose, presenza di gruppi terroristici (si veda Boko Haram) o situazioni di guerra, il tutto a discapito di quanti decidano di abbandonare i propri Paesi di origine per motivazioni che attualmente diventano sempre più incidenti sui flussi migratori. Tra queste ultime, oltre ai cambiamenti climatici che rendono sempre più difficili le condizioni di sussistenza in molti Paesi in particolare dell’Africa Sub-sahariana, anche l’orientamento sessuale.

Note.
1 – “Uganda, tornerà la pena di morte per i gay?”, 11 Ottobre 2019, Africa-La rivista del continente vero, reperibile qui.
2 – “Uganda: non sarà imposta la pena di morte per il sesso gay”, Fonti: reuters.com, 14/10/2019, Nessuno tocchi Caino, reperibile qui.
3 – “Essere gay in Africa può costare la vita: la situazione Paese per Paese”, 6 novembre 2019, Amnesty International, reperibile qui.
4 – “La Nota va a integrare le Linee guida dell’UNHCR sulla persecuzione basata sul genere nel contesto dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del suo Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati”. “Nota dell’UNHCR contenente indicazioni sulle domande di status di rifugiato nell’ambito della Convenzione del 1951 relative a orientamento sessuale e identità di genere”, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) Sezione per le politiche di protezione e per la consulenza legale Divisione dei servizi di protezione internazionale, Ginevra, Novembre 2008.
5 – Ibid.
6 – Ibid.
7 – Ibid.,punto 35.
8Notizia riportata in data 23 aprile 2019 da Il Sole 24 Ore reperibile qui.
9 – Ibid.
10 – “Protezione internazionale va riconosciuta al migrante omosessuale che rischia nel paese d’origine”, Cassazione civile, sez. I,
sentenza 23/04/2019 n° 11176, Di Elisa Scannapieco, 17 maggio 2019. Reperibile qui.