Polonia. Giustizia: Timmermans passa dalle parole ai fatti e avvia l’articolo 7 del Trattato europeo

di Enrico Oliari

Detto, fatto. Già in luglio il vicepresidente vicario della Commissione Frans Timmermans aveva minacciato l’attivazione delle sanzioni previste dall’articolo 7 del Trattato europeo nei confronti della Polonia per la controversa riforma della Giustizia, la quale prevede tra l’altro la scelta dei giudici della Corte suprema da parte del Parlamento (e quindi della maggioranza al potere), una forte influenza del ministro della Giustizia (e quindi del governo) sulla Corte suprema e la nomina dei presidenti dei tribunali ordinari da parte del ministro della Giustizia (e quindi del governo).
Così per la prima volta nella sua storia la Commissione ha pensato di ricorrere all’articolo 7 per via di quella che appare come una palese violazione del diritto di base: Timmermans ha spiegato che, dopo la discussione con i commissari, sono state appurate “13 misure” messe in campo dal governo polacco che “hanno messo a serio rischio l’intero sistema giudiziario”. “Non ci hanno lasciato scelta”, ha esclamato il vice capo della Commissione, aggiungendo che per due anni e con “tre raccomandazioni” “abbiamo fatto tutto ciò che era umano per cercare di trovare un dialogo. Provo un senso di frustrazione per non aver raggiunto ciò che volevamo”. Un dialogo che rimane tuttavia aperto, e “chiediamo al Parlamento europeo e al Consiglio di aiutarci a risolvere il problema, ora anche loro potranno inviare delle raccomandazioni a Varsavia”.
Tecnicamente infatti la palla passa ora al Consiglio europeo e agli eurodeputati, mentre da parte di Varsavia è già stata fatta sapere l’intenzione di andare avanti con la riforma della Giustizia, il cui ministro Zbigniew Ziobro ha affermato che l’iniziativa europea è “una mossa politica”.
La riforma è stata voluta dall’euroscettico Jaroslaw Kaczynski, leader del partito al potere Diritto e Giustizia e uomo forte di cui la premier Beata Szydlo sarebbe solo un prestanome, ma già in luglio il presidente polacco Andrzej Duda, proveniente dallo stesso partito, aveva sul momento posto il veto rispedendola al Parlamento.
Duda aveva risposto così non solo alle raccomandazioni di Bruxelles, ma anche alle proteste della piazza che fin da subito, cioè dal 2015, si erano svolte in diverse città del Paese al grido di “difendere la democrazia, la costituzione, la magistratura e i tribunali”. Il presidente aveva osservanto che “lo Stato non si può sviluppare dove regna l’inquietudine e dove è in corso una guerra politica”.
L’applicazione dell’articolo 7 del Trattato europeo è tuttavia meno facile di quello che sembri, dal momento che essa prevede il voto unanime degli altri paesi, e gli altri Visegrad (Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) potrebbero schierarsi a fianco della Polonia come è sempre stato sul tema della ripartizione delle quote migranti.
In settembre il premier ungherese Viktor Orban, in visita a Varsavia, aveva espresso accuse dure nei confronti dell’Ue per quella che lui riteneva una di mancanza di rispetto nei confronti di Varsavia: “Le critiche dello stato di diritto in Polonia non hanno ragione e le minacce contro Varsavia da parte dell’Unione Europea sembrano pratiche simili all’inquisizione”.