Qualcosa di nuovo sul fronte orientale?

A Gaza prosegue la carneficina, Meloni non interviene ma si rafforza, Biden ha un'opportunità.

di Eugenio Lanza * –

Il 13 febbraio scorso si è svolto a Montecitorio il voto sulle sei mozioni parlamentari presentate circa il conflitto in Palestina. Uno di questi testi era stato firmato congiuntamente dalla maggioranza di governo, mentre gli altri cinque provenivano, separatamente, dai vari fronti della minoranza (PD, M5S, AVS, IV e Azione). Naturalmente i contenuti degli stessi variavano sensibilmente tra loro, pur mirando tutti ad un orizzonte di pace, e ribadendo la condanna per gli attentati del 7 ottobre. Il centrodestra esprimeva un anelito ad una risoluzione diplomatica del conflitto, ma insistendo sulla sospensione dei fondi all’UNRWA; le sinistre, con varie sfumature, convergevano nella ferma richiesta di un cessate-il-fuoco, nell’istanza di riconoscimento dello Stato palestinese, e nella condanna delle azioni dei coloni in Cisgiordania; i centristi, e Italia Viva in particolare, si attestavano ancora una volta sulle posizioni più filo-israeliane di tutto l’emiciclo. Al termine delle votazioni sono stati approvati interamente i testi della maggioranza e di Azione, parzialmente quello di Italia Viva, e respinti quelli del Movimento 5 Stelle e dei rossoverdi. Tuttavia l’elemento di maggior rilevanza politica è che sia stato approvato anche il primo punto del dispositivo Dem, concernente il suddetto cessate-il-fuoco e la fornitura di aiuti umanitari a Gaza.
Al di là del contenuto della mozione, è importante rilevare come questo segmento sia stato approvato in aula grazie all’astensione dei parlamentari di maggioranza. Tutto ciò è stato reso possibile grazie alla telefonata effettuata da Elly Schlein a Giorgia Meloni, in virtù della quale la segretaria del PD è riuscita a convincere la premier a dettare questa linea ai propri deputati. Questa intesa tra le due leader della politica nostrana naturalmente ha degli importanti risvolti sul piano interno, e palesa alcune dinamiche in seno al rapporto governo-opposizione. Oltre a rappresentare una delle prime affermazioni politiche della segretaria Dem, questo passaggio permette di acquisire più consapevolezza circa la strategia adottata dalla presidente del Consiglio. L’inquilina di Palazzo Chigi negli ultimi 15 mesi è riuscita a tenere il proprio partito in alto nei sondaggi, e a rimanere saldamente al comando del Paese, malgrado sul piano sostanziale abbia collezionato decisamente più fallimenti che successi. Basti pensare alla macelleria sociale attuata con l’abolizione del reddito di cittadinanza, alla posizione di totale subalternità a Washington in materia militare, e alla catastrofe della politica migratoria. Una serie di elementi che da soli avrebbero fatto vacillare seriamente la poltrona di quasi tutti i suoi predecessori. Il tutto senza prendere in considerazione l’imbarazzo generato in varie occasioni dall’inadeguatezza dei suoi deputati o membri di governo: le uscite di Lollobrigida, il caso Pozzolo, e per ultime in ordine temporale le indagini scattate su Vittorio Sgarbi. La forza e la popolarità della premier dunque, non potendo discendere dal proprio operato concreto né dalla caratura dei suoi collaboratori, debbono automaticamente provenire da un altro elemento: la scaltrezza e l’abilità politica che caratterizzano la stessa. Queste qualità si estrinsecano contestualmente lungo due direttrici opposte e parallele. Da una parte un’astuta amministrazione del potere le permette di controllare e tenere a bada tutte e tre le formazioni che la sostengono: a Forza Italia la riforma della giustizia, alla Lega l’autonomia, e il premierato per sé stessa (quest’ultima forse unica vera minaccia per l’esecutivo in un possibile futuro… Renzi docet). Dall’altra Giorgia Meloni previene la crescita elettorale dei propri oppositori giocando sulla frammentazione interna agli stessi; avendo contezza che, nell’agone politico, la scelta dell’avversario corretto può essere più decisiva della partita stessa. Sin dall’inizio della legislatura è stato evidente come Giuseppe Conte fosse l’unico altro vero leader presente nel Paese. Perciò l’unica figura capace di sfidarla, e magari, un giorno, di sconfiggerla.
Ex presidente del Consiglio, ha gestito la nazione nel suo momento più difficile dal dopoguerra in poi, conservando per quanto possibile quel senso di unità nazionale che sarebbe stato poi demolito dal suo successore. Sopravvissuto alle pugnalate infertegli da un Matteo prima e dall’altro dopo, gode ancora di un ampio consenso fra i cittadini, soprattutto presso i giovani e le fasce più deboli della popolazione. In questi tre anni, dopo la stesura e l’approvazione del nuovo Statuto, è riuscito nel complicatissimo compito di risollevare un Movimento 5 Stelle in caduta libera, costruendo una formazione dall’identità precisa e dal posizionamento politico chiaro. Superato l’ostacolo Casaleggio jr, e trovata una collocazione al vulcanico fondatore Beppe Grillo, nel giro di un anno è riuscito a tornare la terza forza politica del Paese a pochi punti dalla seconda, lasciando nel frattempo Di Maio a consumare in pace il suo suicidio politico. Un lungo e complicato processo di rinnovamento insomma, che ora gli permette di essere al timone di un soggetto politico libero da lotte intestine e logiche correntizie, a differenza di altri partiti come la Lega o il PD.
Come affrontare di petto un avversario così forte? Evitandolo. Scegliendone uno più debole. Ed è in quest’ottica che va letto l’assenso di Meloni alla proposta di Schlein su Gaza. Un assist alla punta di riserva per indebolire i numeri del capocannoniere. La nuova leader del Nazareno, al di là delle nobili intenzioni di cambiamento che coltiva per il suo partito, è nella realtà dei fatti una guida estremamente debole. Eletta segretaria alle primarie quasi un anno fa, in questi dodici mesi non è riuscita ad avanzare più di tanto dal ruolo di coraggiosa outsider che si era ritagliata alla vigilia di quelle consultazioni popolari. La classe dirigente del partito, decisamente più centrista e moderata di lei, non le lascia grandi margini di manovra per uno spostamento a sinistra del PD. La giovane politica luganese deve oggi barcamenarsi tra volontà discordanti, in un tempo storico molto complicato, nella chimera di governare quelle forze di cui il suo operato risulta invece una sintesi di compromesso. L’esatto opposto di Conte, appunto. Il quale, come Meloni, oltre a informarsi sulla realtà, le dà forma. È per questo che la premier ha deciso di offrire un omaggio al tiepido e indeciso pacifismo di Elly Schlein: per mettere in ombra quello saldo e programmatico del Presidente pentastellato.
Ridurre questo voto parlamentare ad una mera manifestazione di tali giochi di potere, tuttavia, sarebbe a mio giudizio un errore. È chiaro che questa mozione non abbia alcun effetto immediato e concreto sulle sorti del conflitto in medioriente. Tuttavia, esso è forse sintomatico della volontà di un leggero cambio di postura riguardo alla questione palestinese. Più che quanto accaduto in aula, però, risultano interessanti le dichiarazioni del ministro degli Esteri Antonio Tajani, rilasciate a Radio Uno proprio lo stesso giorno del voto. “A questo punto la reazione di Israele è sproporzionata, ci sono troppe vittime che non hanno a che fare con Hamas”, asserisce il forzista. Il quale sostiene anche che Israele dovrebbe “evitare rappresaglie contro la popolazione civile palestinese”. Affermazioni lapalissiane per chiunque segua anche distrattamente gli eventi che si stanno verificando in quel fazzoletto di terra, è vero, ma mai pronunciate con tale chiarezza da parte di un esponente del Governo italiano. E tantomeno dal titolare di uno dei suoi dicasteri più importanti.
Forse il coraggio necessario per esprimere questa pur timida critica alla barbarie di Israele, più che di un interno travaglio è figlio delle evoluzioni avvenute oltreoceano. L’amministrazione Biden, con cui l’esecutivo Meloni è dal principio in un rapporto di profonda simbiosi, comincia a mostrare segni di insofferenza verso la politica sanguinaria di Tel Aviv. Secondo NBC News, l’inquilino della Casa Bianca avrebbe terminato la pazienza nei confronti di Netanyahu, e si sarebbe riferito a lui con epiteti molto poco edificanti difronte ai propri collaboratori, sostenendo che quest’ultimo gli starebbe “facendo passare l’inferno”. Al di là delle smentite di rito da parte del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, la collera del Biden non sorprenderebbe più di tanto, e sarebbe ingenuo ritenere che non vi sia almeno una porzione di verità all’interno di queste indiscrezioni. D’altro canto, il Presidente USA avrebbe almeno due buone ragioni per pretendere una de-escalation da parte di Israele, al di là della questione umanitaria (che purtroppo è di rado un elemento dirimente nelle dinamiche geopolitiche).
In primis, perché sul piano di politica estera gli States non hanno convenienza a veder precipitare questo conflitto verso uno scenario di guerra possibilmente molto più ampio. Se è vero che l’aquila testabianca è storicamente il più grande partner militare di Tel Aviv, è anche vero che lo spietato colonialismo di questa giovane nazione non può essere sostenuto sine die nemmeno dal più bellicoso degli alleati. Ed in particolare non può essere incoraggiato in questo preciso momento storico, rispetto al quale sarebbe opportuno compiere una riflessione dal punto di vista americano. A tal riguardo è bene notare che le guerre made in USA, o quelle in cui essi si lasciano volentieri coinvolgere, vengono sovente intraprese senza scrupoli, ma sempre più di rado senza ragioni strategiche. Dopo i disastri in Iraq e in Afghanistan, gli apparati a stelle e strisce hanno probabilmente imparato ad essere più prudenti, sviluppando una politica militare più oculata, sebbene sempre nel solco di un tendenziale interventismo. Il conflitto deflagrato in Ucraina nel febbraio 2022 a causa dell’invasione russa, ad esempio, ha rappresentato un’occasione estremamente ghiotta per gli States, che non si sono lasciati sfuggire l’opportunità di trarre profitto da questa tragedia euroasiatica. Il sostegno incessante e senza condizioni al governo di Zelensky, finanziato a caro prezzo anche dai Paesi europei ma non accompagnato da un serio tentativo di mediazione, ha portato agli Stati Uniti una lunga serie di vantaggi: l’indebolimento economico, militare e mediatico della Russia (e la possibilità di studiare la reale potenza bellica della stessa), il completo inserimento nella propria sfera di influenza di nazioni un tempo meno allineate (la Finlandia è di recente entrata nella NATO, e forse sarà presto il turno della Svezia), e soprattutto la distruzione dei rapporti diplomatici e commerciali presenti tra il vecchio continente e Mosca (per la gioia delle esportazioni statunitensi e a totale detrimento delle economie europee, con l’effetto collaterale di aver contestualmente consegnato la Russia nelle mani del gigante cinese). Il tutto senza considerare il rafforzamento con denaro pubblico delle già ricchissime aziende produttrici di armi (Lockheed Martin e Raytheon Technologies solo per citarne due). Il conflitto in Ucraina tuttavia ha anche rappresentato uno sforzo importante per la civiltà del dollaro, che come sostenevo poc’anzi ha imparato a individuare con maggiore attenzione gli obiettivi decisivi per il proprio futuro. È parere condiviso in maniera piuttosto unanime, tra gli analisti geopolitici, che per Washington la sfida del secolo sarà quella con Pechino. E vi è la possibilità, neanche tanto distante, che questa tensione possa prima o poi raggiungere un punto di rottura, quasi sicuramente a Taiwan. Per quel giorno, gli Stati Uniti non potranno farsi trovare impreparati, e dovranno essersi disimpegnati da tutti quei conflitti ritenuti secondari. Alla luce di questi ragionamenti, è evidente come la furia omicida di Israele non possa conciliarsi con l’obiettivo di razionalizzare il proprio dispendio di energie da parte della Casa Bianca. La quale, in queste settimane, è coinvolta anche nello scontro con gli Houthi in Mar Rosso, e in quello indiretto contro l’Iran nei territori iracheni e siriani.
In secondo luogo, con le elezioni presidenziali alle porte (novembre 2024), Biden deve gestire le questioni estere pensando alle conseguenze sul piano interno, e alle ripercussioni sul proprio consenso popolare. La sfida che nel prossimo autunno lo attende alle urne sarà durissima, da giocarsi contro un avversario più agguerrito che mai, e che promette di risolvere la guerra in Ucraina in sole 24 ore. Joe Biden deve confrontarsi con un Paese più preoccupato della propria economia che di ciò che accade oltreoceano, e si trova difronte un Trump le cui promesse di isolazionismo sono più roboanti che mai. Il tycoon newyorkese, a tal proposito, ha di recente assicurato che una volta al potere non difenderà gli altri Paesi Nato da nessuno, se questi non adegueranno la propria spesa militare agli standard imposti dall’Alleanza Atlantica. La questione bellica sembra a questo punto rappresentare un punto irrimediabilmente a favore del candidato repubblicano, a meno che Biden non riesca a rovesciare la situazione proprio attraverso il conflitto in Palestina. È infatti evidente come l’aggressione israeliana a Gaza non riesca in alcun modo a trovare consenso tra le masse occidentali, nonostante gli immensi sforzi mediatici profusi dalla propaganda di Tel Aviv. In particolare, negli Stati Uniti, l’ala più giovane e progressista dell’elettorato democratico non ha mancato di manifestare vivacemente il proprio disgusto per queste operazioni di pulizia etnica. È altresì notorio come Trump, alla luce della sua salda alleanza con Netanyahu, in merito alla questione palestinese si trovi in forte imbarazzo rispetto al suo pacifismo di facciata. Ed è qui che l’attuale inquilino di 1600 Pennsylvania Avenue potrebbe prendere in contropiede il proprio predecessore: arrestando la terribile strage di civili in atto a Gaza, anche al prezzo di compromettere le relazioni con Tel Aviv. Se poi quest’intenzione si tradurrà in uno sforzo concreto, e se questo impegno sortirà qualche effetto, sono interrogativi ai quali è ancora impossibile dare risposta. Far ragionare una potenza nucleare è sempre una sfida piuttosto ardua, e lo è ancora di più se il leader del Paese in questione deve la sua permanenza al governo proprio al perdurare della guerra.
Quello che accadrà a Rafah nei prossimi giorni potrà già essere significativo in tal senso. Netanyahu è intenzionato ad attaccare questa città, posta nell’estremo Sud della striscia di Gaza e al confine con l’Egitto, senza curarsi dell’inaudito spargimento di sangue che una tale operazione provocherebbe. Biden l’ha ammonito di non eseguire un simile intervento senza prima tutelare la popolazione civile. La quale, dobbiamo aggiungere, è stata ammassata in quei luoghi proprio a causa dell’avanzata israeliana degli ultimi mesi.
Il messaggio da Washington è stato chiaro. Verrà recepito? I fatti ci daranno presto indicazioni a riguardo. Nella speranza, forse molto ingenua, che almeno questa carneficina possa essere evitata.

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