Quando cade un filo spinato

Domani un vertice in Turchia con Merkel e Macron che sa poco di europeo.

di Giovanni Ciprotti

C’è stato un tempo in cui le frontiere europee erano più permeabili di oggi e gli europei accoglievano volentieri gli stranieri che si affacciavano ai loro confini in cerca di un posto migliore in cui vivere. Era l’epoca della Guerra Fredda e l’Europa era divisa in due dalla cortina di ferro: l’Europa occidentale non chiudeva le sue porte ai fratelli orientali, più sfortunati, che fuggivano dai regimi delle democrazie popolari. Ogni profugo che trovava rifugio in occidente rappresentava una picconata sulle dittature comuniste dell’Europa dell’est, un punto a favore per la propaganda occidentale nel durissimo confronto con il comunismo sovietico.
In occidente approdarono nel 1956 gli ungheresi in fuga dopo l’intervento dei carri armati sovietici a Budapest e i cecoslovacchi nel 1968 dopo il fallimento della “primavera di Praga”.
In quei decenni c’era posto per tutti nei paesi dell’Europa occidentale: polacchi, rumeni, russi, tedeschi. L’ultimo esodo dal mondo comunista risale all’estate del 1989, nei mesi che precedettero la caduta del Muro.
Il 2 maggio di quell’anno l’Ungheria decise di abbattere la barriera di filo spinato elettrificato al confine con l’Austria: un tratto della cortina di ferro cessava di esistere. Da quel varco iniziarono a passare in Austria gruppi di persone che abbandonavano il socialismo reale per scommettere sul mondo occidentale.
Il 19 agosto dal paese di Sopron, al confine con l’Austria, centinaia di tedeschi dell’est passarono il confine approfittando di un evento, il “pic-nic paneuropeo”, organizzato appositamente per favorire la fuga all’ovest. Dall’altra parte del confine Austria e Germania Occidentale avevano predisposto in gran segreto un sistema di pullman per trasferire i tedeschi orientali nella Germania Federale.
Nei mesi successivi i tentativi di passare in occidente si intensificarono: migliaia di persone sfruttarono i varchi aperti al confine austro-ungherese; altre migliaia invasero le ambasciate della Germania Federale a Budapest, Praga e Varsavia chiedendo asilo politico. Dopo un braccio di ferro tra le due capitali tedesche e un intenso lavoro diplomatico, il 30 settembre 1989 cinque treni trasportarono circa seimila tedeschi dell’est da Praga in Bavaria attraversando la Germania dell’Est.
Altri tempi, altre dinamiche.
Oggi la Guerra fredda è un lontano ricordo. Con essa sono svanite molte paure, ma anche qualche certezza: la facilità nel distinguere gli amici dai nemici e la consapevolezza di appartenere ad uno schieramento ben identificato. Purtroppo, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica si è interrotto anche l’enorme flusso di denaro che da Washington si riversava nelle casse di tutte le capitali dell’Europa occidentale. Al contrario, negli ultimi anni l’amministrazione statunitense non ha perso occasione di ricordare agli alleati europei che dovrebbero contribuire con maggiori finanziamenti alla difesa comune.
La grave crisi economica del 2007-2008 ha avuto effetti molto pesanti sull’economia mondiale e a distanza di più di dieci anni i governi europei devono ancora confrontarsi con una ripresa che stenta a consolidarsi.
L’effetto combinato dei due aspetti citati è un impoverimento generale delle società europee e una conseguente ridotta disponibilità a farsi carico dei costi di accoglienza di chi, spinto da fame, guerre e persecuzioni, si affaccia ai confini europei. Una ritrosia comprensibile, ma non sufficiente ad arginare il fenomeno migratorio che sta interessando l’Europa dagli ultimi anni del Novecento.
Pochi giorni fa al confine tra Turchia e Grecia le autorità turche hanno rimosso le barriere che trattenevano sul loro territorio i profughi fuggiti dalla Siria. Ai tentativi dei disperati di attraversare il confine ed entrare in Europa si è opposta la polizia greca.
Nelle prossime settimane il fenomeno potrebbe intensificarsi, se il presidente turco Recep Tayyip Erdogan dovesse mantenere il suo proposito di aprire i confini alle centinaia di migliaia di persone in fuga dalla guerra in Siria che proprio in Turchia hanno finora trovato accoglienza, sebbene in condizioni di vita precarie.
Potrebbe trattarsi dell’inizio di una gravissima crisi umanitaria che investirebbe l’Europa. Nell’ultimo decennio la gestione dei flussi migratori ha evidenziato le debolezze delle istituzioni dell’Unione Europea, condizionata dagli interessi contrapposti dei suoi Paesi membri. Il bizzarro meccanismo previsto dal Trattato di Dublino, i veti incrociati dei singoli governi, la linea autonoma seguita da alcuni Stati, come l’Ungheria di Viktor Orban, rispetto alle direttive di Bruxelles hanno troppo spesso scaricato su alcuni Paesi membri della UE gli oneri finanziari e logistici legati alla gestione dei flussi migratori. L’Italia ne sa qualcosa.
La temuta invasione di profughi siriani al confine greco-turco ha origine nelle iniziative politiche e militari decise ad Ankara e a Mosca in merito alla guerra in Siria.
Le agenzie di stampa hanno confermato un vertice in Turchia per domani al quale parteciperanno Emmanuel Macron, Angela Merkel e Vladimir Putin.
Non è una buona notizia per l’Unione Europea. Francia e Germania tenderanno a salvaguardare i propri interessi nazionali e non potranno rappresentare la posizione complessiva dell’Ue, ammesso che ce ne sia una riconoscibile.
Se l’Unione non vuole perdere l’ennesima occasione per contare qualcosa sul piano internazionale, al vertice di domani dovrebbe partecipare Josep Borrell, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza della Unione Europea. Dopo il primo, incolore mandato di Catherine Ashton, i cinque anni di Federica Mogherini alla guida della diplomazia europea avevano fatto sperare in un miglioramento nella capacità di Bruxelles di impostare una propria politica estera. Oggi, di fronte al rischio di una nuova crisi umanitaria ai nostri confini, sarebbe opportuno fare un passo avanti e non uno indietro.