E a Roma c’è una donna che ha il Congo nel cuore

di Enrico Oliari –

C’è chi non ignora la disperazione e le difficoltà degli altri e non accetta di limitarsi ad un semplice disappunto: Lidia Sforza è una donna energica, di quelle che non si fermano davanti a niente ed a nessuno. Abita a Roma, dove gestisce un profumeria ed un bar nella zona di Montesacro – Nuovo Salario: “Lorenzo chiAma il Congo” è una onlus che, come si legge nel sito dell’associazione, “promuove attività di sviluppo per la popolazione svantaggiata del Congo al fine di garantire i diritti di base attraverso la partecipazione attiva e mettendo in atto progetti in diversi settori”. L’ha fondata nel 2009 con un sacerdote di Piacenza ed altre persone motivate e il 16 marzo del 2011 si è recata nel paese africano per posare la prima pietra di un piccolo ma funzionale ospedale.
Nel 2004 è venuto a mancare mio figlio Lorenzo, morto a 26 anni in seguito ad un incidente stradale”, spiega Lidia a Le Città. “Ho pensato che il miglior modo per ricordarlo fosse quello di dedicargli una vera opera di bene”.
– Perché proprio nella Repubblica democratica del Congo?
Non c’è un motivo specifico, poteva essere un altro paese o addirittura un altro continente. Avevo conosciuto un religioso congolese che mi aveva descritto la difficile situazione di Kinshasa…”.
– E l’idea dell’ospedale, da cosa è nata?
All’inizio avevamo comprato dei terreni e li avevamo resi coltivabili impiegando gente del posto. Poi, volendo fare qualcosa di più, abbiamo chiesto un parere ad un sacerdote originario di Kinshasa, ci siamo impegnati nella raccolta fondi ed abbiamo incaricato un centro sociale comboniano di costruire per noi un dispensario sanitario, che piano piano è diventato un vero e proprio ospedale di Maternità e di Primo Soccorso. Oggi stiamo lavorando anche alla realizzazione, nel piano superiore, di un centro di accoglienza rivolto sia a persone in difficoltà che a figure sanitarie che vi lavorano o vi prestano volontariato. Proprio in questi giorni abbiamo anche avuto l’autorizzazione ad aprire una banca del sangue. La scelta di posare la prima pietra il 16 marzo non è stata casuale: mio figlio quel giorno avrebbe compiuto trentatré anni”.
– Come avete operato per il materiale sanitario?
Molto è partito da qui: abbiamo riempito un container, con letti, materassi, microscopi per le analisi ed altro. Cerano anche vestiti, medicinali, un ecografo ed altri strumenti, oltre che un generatore di corrente, perché lì l’energia elettrica va e viene in continuazione”.
– Che genere di difficoltà avete incontrato?
Il governo lascia fare, perché la situazione umanitaria è drammatica e da solo non riesce a gestirla. Ad esempio, nella capitale, Kinshasa, vi sono dieci milioni di abitanti, molti dei quali fuggiti dalle zone di guerra e costretti ad una situazione di indigenza. Le strutture sanitarie pubbliche non sono in grado di erogare una vera e propria assistenza come la intendiamo noi e molte cose sono a pagamento, in una realtà dove un milione di persone, anche italiane, ricchissime, hanno le loro ville superprotette di fianco alle capanne della povera gente, spesso denutrita e quindi facilmente soggetta alle malattie.
Poi vi è il problema dell’impressionante tasso di corruzione: solo per sbloccare il nostro container, che tra l’altro non si trovava ancora a Kinshasa, ci hanno chiesto 8.500 dollari, per cui non c’è restato altro da fare che contrattare e pagare, nonostante la mia minaccia di incatenarmi e protestare davanti al ministero”.
– I disordini che interessano il paese, come le tensioni con il movimento M23, vi preoccupano?
In realtà si tratta di scontri che avvengono molto lontano da noi, i cui effetti che vediamo sono, come dicevo, il riversamento nella capitale di molti profughi”.
– Come si rapporta quel milione di persone benestanti con i nove milioni di persone indigenti ed in difficoltà?
Ognuno fa la vita propria; se non altro i ricchi o anche chi sta bene senza essere ricco, assumono camerieri, giardinieri, guardie e quant’altro favorendo così un minimo di lavoro. Ci tengo tuttavia  precisare che i poveri del Congo rimangono comunque persone molto dignitose, pulite, con una cultura dell’ordine personale”.
– Come fate a raccogliere le risorse economiche per il progetto che avete in atto?
Personalmente ho voluto dare un mio primo contributo in questo modo: ho tre figli, ho diviso quanto volevo dare loro ed al progetto ho destinato la parte di Lorenzo. Poi, oltre alle donazioni personali, abbiamo istituito una quota di iscrizione alla nostra associazione, quindi partecipiamo a mercatini, cosa di cui ormai sono un’esperta; o ancora a Natale vendiamo torroni o altri dolciumi, a Pasqua le uova, il cui ricavato va all’associazione. Abbiamo un conto corrente e di tanto in tanto arriva, grazie anche al nostro sito internet, del denaro che ci permette sia di pagare gli stipendi di chi lavora in ospedale, sia di intraprendere altre iniziative per il centro che abbiamo costruito”.
– Prima parlava di una banca del sangue, per cui occorreranno macchinari specifici: a quali altri progetti immediati state pensando?
Quest’anno abbiamo realizzato una campagna completa di vaccinazioni e, non appena possibile, vorremmo procedere agli interventi di cataratta con il laser in una regione dove questo tipo di disturbo è molto diffuso e non in pochi rimangono ciechi già a quarant’anni, come pure provvedere ad una poltrona da dentista”.
– Che genere di medicinali raccogliete?
In modo particolare antibiotici ed integratori, mentre garze ed altri presidi si trovano anche lì sul posto. La cosa importante è non fermarsi e non arrendersi davanti alle difficoltà, perché lì c’è gente che ha bisogno del nostro aiuto ed a volte basta anche poco per fare grandi cose”.

Lorenzo chiAma il Congo
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