Romania. La crisi elettorale e la posta in gioco sul fianco orientale della Nato

di Riccardo Renzi

Il 6 dicembre 2024 la Corte costituzionale della Romania ha annullato le elezioni presidenziali, un gesto straordinario motivato dalla rivelazione, tramite un rapporto di intelligence declassificato, di un’ampia interferenza straniera. Il beneficiario di questa manipolazione, Călin Georgescu, candidato ultra-nazionalista e apertamente anti-NATO, aveva inaspettatamente conquistato il primo turno. L’annullamento, pur giustificato sul piano legale, ha evidenziato una verità più profonda: la democrazia rumena è diventata l’anello debole nella catena di sicurezza dell’Alleanza Atlantica.
Nel cuore del fianco orientale della NATO, la Romania occupa una posizione geostrategica fondamentale. Con la guerra in Ucraina che continua a ridefinire l’ordine di sicurezza europeo, ogni instabilità a Bucarest diventa immediatamente una questione transnazionale. Non sorprende quindi che l’annullamento elettorale abbia avuto riverberi ben oltre i Carpazi: non si tratta solo di una crisi nazionale, ma di un campanello d’allarme per tutto l’Occidente.
La narrazione ufficiale di “difesa dell’integrità democratica” non ha convinto del tutto. L’opacità del processo, unita alla debolezza comunicativa delle istituzioni, ha alimentato sfiducia e polarizzazione. Il risultato? La democrazia rumena è sembrata vulnerabile non solo agli attacchi esterni, ma anche alla propria incapacità di gestire le crisi in modo credibile e trasparente.
La campagna elettorale di Georgescu è stata una masterclass di guerra informativa. Basandosi su piattaforme digitali ad alta diffusione (TikTok, Telegram, YouTube), ha sfruttato contenuti emotivi, complottisti e destabilizzanti. Le analisi forensi digitali hanno dimostrato che l’amplificazione di questi messaggi proveniva da reti riconducibili a Mosca e Teheran. Ma la vera forza dell’operazione non è stata l’efficacia di un attacco esterno: è stata la sua capacità di radicarsi su fragilità interne già esistenti.
Lo scopo non era solo eleggere un presidente estremista, ma delegittimare l’intero processo democratico. In questo, l’operazione ha avuto successo: le elezioni non sono solo state cancellate, sono diventate non credibili. La Romania è così diventata il laboratorio di una nuova generazione di minacce ibride.
Dopo l’esclusione di Georgescu, il nuovo volto della destra radicale è George Simion, leader dell’Alleanza per l’Unione dei Romeni (AUR). Simion ha raccolto l’eredità populista, nazionalista e filorussa del predecessore, accusando le istituzioni rumene di aver compiuto un “colpo di Stato” su mandato dell’Occidente. I sondaggi lo vedono oggi in testa per il primo turno delle elezioni riprogrammate per maggio 2025.
Simion incarna una forma sempre più diffusa di leadership illiberale: anti-sistema ma profondamente opportunista, ultranazionalista ma attento agli equilibri con le potenze esterne. Ha costruito la sua base sull’opposizione ai vaccini, sull’idea di una “Grande Romania” e su un messaggio diretto alla diaspora e ai giovani rurali, delusi dalla stagnazione politica ed economica.
Il suo potenziale successo rappresenta una sfida sia per la tenuta democratica interna, sia per la stabilità euroatlantica: il futuro della base NATO di Mihail Kogălniceanu, la cooperazione bilaterale con gli Stati Uniti e il ruolo della Romania nel sostegno all’Ucraina potrebbero essere rimessi in discussione.
La decisione di squalificare Georgescu e limitare la diffusione dei suoi messaggi digitali è stata necessaria, ma sintomatica di una strategia che gestisce il rischio, ma non lo disinnesca. Il vero problema, cioè la debolezza strutturale della democrazia rumena, rimane irrisolto.
Il centro democratico è oggi diviso, privo di visione e poco capace di parlare all’elettorato alienato. I candidati moderati, come Nicușor Dan o Crin Antonescu, appaiono più come soluzioni tecnocratiche che come risposte politiche profonde. L’assenza di una narrazione positiva lascia spazio all’estremismo.
Eppure la Romania possiede enormi potenzialità: un capitale umano d’eccellenza nel settore tecnologico, una società civile attiva, e un posizionamento strategico invidiabile. Questi asset, tuttavia, devono essere rafforzati da una strategia di resilienza strutturale, che includa:

• Investimenti nell’infrastruttura civica digitale, per contrastare la disinformazione;

• Istituzioni di controllo indipendenti, capaci di monitorare i processi democratici;

• Educazione civica e alfabetizzazione mediatica, per immunizzare la popolazione contro la propaganda;

• Un meccanismo transatlantico di risposta rapida alle campagne ibride, con una strategia condivisa tra NATO e UE.

Il caso rumeno non è un’anomalia. È il nuovo volto delle minacce alla sicurezza transatlantica: non più solo missili o carri armati, ma crisi di fiducia, manipolazioni algoritmiche e attacchi alla coesione democratica. Di fronte a queste minacce, le risposte tradizionali si rivelano obsolete. Serve un cambio di paradigma.
Se la NATO e l’Unione Europea falliranno nel rispondere alla crisi rumena con un piano credibile di rafforzamento democratico, il rischio è che il “modello Simion” venga esportato, non solo nei Balcani ma in tutta l’Europa orientale. La guerra ibrida non distrugge, svuota. Non annienta i governi, ma la loro legittimità. Non invade le capitali, ma occupa le menti.
Il caso Romania ci interroga su una verità scomoda: le democrazie possono crollare anche senza colpi di Stato visibili, pezzo per pezzo, elezione dopo elezione. Difendere le istituzioni significa oggi proteggerne la credibilità, ricostruire il legame tra cittadini e Stato, e saper offrire risposte politiche prima ancora che tecniche. La posta in gioco non è solo la presidenza rumena, ma il futuro del progetto democratico europeo in una regione sempre più esposta a forze destabilizzanti.