Ruanda. Kigali tra Rwanda plan e voto

di Francesco Giappichini

Il Ruanda torna sotto i riflettori dei media, e varie sono le cause. In primo luogo il Parlamento britannico ha approvato il Rwanda asylum plan: il trattato che regola la deportazione dal Regno Unito al Ruanda dei migranti illegali, anche se richiedenti asilo. Un testo che parte dei ruandesi giudica con favore per motivi d’immagine, perché attrae fondi e perché favorisce il multiculturalismo. I contrari puntano invece il dito sullo scarso rispetto dei diritti umani in loco. E rilevano che in un Paese piccolo, densamente popolato, e con scarso accesso ai servizi di base, gli stranieri possono entrare in competizione con i locali, con esiti drammatici. Il Rwanda plan è stato decisivo per riportare il Paese del Lago Kivu al centro dell’attenzione mediatica: l’opinione pubblica mondiale vuole capire quanto sia replicabile un accordo che è fondato sul principio dell’externalisation de l’asile (come lo chiamano i giuristi francesi), ma che pare comunque attrattivo per elettorati conservatori.
Vi è però anche dell’altro a spiegare il boom mediatico. Ricorre infatti il 30mo anniversario del Genocidio del Ruanda (celebrazioni sono in corso), e il 15 luglio si svolgeranno le presidenziali. Quelle che con percentuali bulgare decreteranno un nuovo mandato per l’autocrate e padre della patria Paul Kagame. Questi nel ’17 ha ottenuto il 98,6% dei voti, a fronte di un’affluenza del 98,1. E lo scenario si ripeterà: lo sfidante ufficiale, l’ecologista Frank Habineza, raggiungerà percentuali irrisorie. E poi la stampa finanziaria globale osserva i progressi economici di un Paese che in pochi decenni è passato da una guerra civile culminata in un genocidio, all’esser celebrato come la “Svizzera dell’Africa”.
Anche se i più distratti se ne sono accorti solo durante la pandemia, quando il Paese della Regione dei Grandi Laghi fu inserito nella fascia degli Stati virtuosi, verso cui era più facile viaggiare. Senza tralasciare che, nell’età dei populismi, il regime di Kagame è divenuto oggetto di interesse accademico. E anche i media generalisti hanno cominciato ad approfondire pratiche controverse come l’umuganda: il lavoro comunitario e volontario, con cui l’autocrazia cerca anche di esercitare uno stretto controllo sulla popolazione. E si è cercato anche di seguire oscuri casi giudiziari, come quello che ha portato alla condanna dell’oppositore Paul Rusesabagina (oggi negli Stati Uniti), che ha ispirato l’eroe del noto film “Hotel Rwanda”.
O come il processo tutto politico a carico dell’oppositrice Victoire Ingabire Umuhoza, che ha sì beneficiato della grazia presidenziale (dopo aver trascorso otto anni in carcere per cospirazione), ma le è stata poi negata la candidatura elettorale. E poi si è tentato di riprendere il filo del conflitto del Kivu, dopo che in febbraio Washington ha espressamente accusato Kagame di sostenere i ribelli del Mouvement du 23 mars (M23). Il Dipartimento di stato ha intimato di cessare tali operazioni, volte ad accaparrarsi materie prime nella Repubblica democratica del Congo, per contrabbandarle. E tutto ciò, si badi bene, nonostante la gestione Kagame sia stata segnata da un costante allineamento agli Stati Uniti, e da tensioni con Parigi. Infine è pacifico come l’interesse per il Ruanda sia stato ravvivato anche dalle recenti débâcle della Françafrique, di cui la traiettoria del Ruanda ha rappresentato un’anticipazione: ad esempio, dal 2010 l’inglese ha soppiantato il francese nell’insegnamento scolastico.