di Giuseppe Gagliano –
Con un verdetto a porte chiuse emesso il 17 aprile 2025, la Corte suprema della Federazione Russa ha rimosso i Talebani dalla lista ufficiale delle organizzazioni terroristiche. Una decisione che segna non solo la fine simbolica di vent’anni di ostilità, ma anche l’avvio formale di una strategia diplomatica che fa del regime di Kabul un interlocutore legittimo in uno scacchiere asiatico sempre più orfano della presenza occidentale.
Mosca abbandona ogni ambiguità e scommette sul regime islamista salito al potere dopo la precipitosa fuga degli Stati Uniti nel 2021. A nulla vale il fatto che nessun Paese al mondo abbia ancora riconosciuto ufficialmente l’Emirato islamico dei Talebani: per il Cremlino, il pragmatismo geopolitico conta più delle convenzioni giuridiche.
Non è solo una questione di relazioni bilaterali. La decisione nasce da una richiesta della Procura generale e affonda le radici in un decreto firmato da Putin l’anno scorso, volto a consentire deroghe mirate nella designazione delle organizzazioni terroristiche. I Talebani, che un tempo finanziavano i ribelli ceceni e sostenevano l’indipendenza della repubblica islamica d’Ichkeria, ora sono visti come alleati nella lotta al jihadismo incontrollato, in particolare contro l’ISIS-K, considerato da Mosca una minaccia diretta, specie dopo la strage del 22 marzo 2024 alla Crocus City Hall.
Nel linguaggio del Cremlino, quello con i Talebani è un patto di mutuo interesse: l’Afghanistan garantisce sicurezza lungo il fianco sud della Russia e apre il proprio territorio a progetti infrastrutturali e corridoi energetici strategici; in cambio, Mosca offre legittimazione diplomatica, cooperazione economica e forse, in futuro, anche aiuto militare.
Un realismo brutale, che però solleva interrogativi. Il governo talebano rimane sotto accusa per la repressione sistematica dei diritti umani, in particolare contro donne e minoranze. Le scuole per le ragazze sono ancora chiuse, le libertà individuali soppresse, e ogni attività pubblica femminile è vincolata alla presenza di un tutore maschio. Un modello che ripropone, quasi senza variazioni, l’oscurantismo del primo Emirato (1996–2001).
Eppure in un contesto di crescente ostilità verso l’Occidente, Mosca preferisce chiudere gli occhi. Come sottolinea l’esperto russo Ruslan Suleymanov, la mossa ha anche un valore simbolico: la Russia intende affermarsi come attore regionale autonomo, capace di sostituire gli Stati Uniti nella gestione delle crisi. Il messaggio è chiaro: l’ordine globale post-2001 è finito, e le regole vengono ora riscritte da chi ha il coraggio, o il cinismo, di trattare con chiunque, purché utile.
Così, tra forum economici condivisi e visite ufficiali sempre più frequenti, i Talebani passano da “nemici” a “partner affidabili”. Ma questa trasformazione, voluta da Mosca, rischia di dare nuova linfa a un regime oscurantista, legittimandone le derive in nome dell’interesse strategico. E mentre l’Occidente resta paralizzato dai suoi principi non negoziabili, la realpolitik russa avanza, costruendo alleanze là dove altri vedono soltanto minacce.