Sanzioni alla Russia: cronaca di un’arma desueta

di Filippo Sardella

Da due anni a causa della sanzioni dovute alla crisi della Crimea, la Russia vive in modo completamente nuovo il rapporto con la propria agricoltura, la propria economia ed il proprio sviluppo industriale. Lo scorso 19 dicembre il Consiglio Europeo, perpetrando nella propria scelta, ha prorogato le sanzioni economiche riguardanti settori specifici dell’economia russa fino al 31 luglio 2017; esse però dopo poco più di 24 mesi dal loro varo si sono dimostrate più una manifestazione di impotenza, nuocendo a chi le ha imposte non meno di quanto non abbiano nuociuto a chi ne è stato vittima.
L’avvio delle sanzioni da parte degli Usa e di un certo numero di Stati europei ha dato vita nel paese ad un processo di sostituzione di quelli che erano stati gli storici partners importatori.
L’arma delle sanzioni avvalsa da Usa e Unione Europea, ideata già dal marzo del 2014, aveva l’intento di mettere in ginocchio ed in crisi l’economia Russa, nutrendo la speranza nei suoi promotori che tale mossa fosse in grado di far abbandonare l’interesse del governo federale russo circa le vicende di politica interna ed esterna ucraine.
Il principale motivo che ha dato il via alle sanzioni, oltre a quello di fungere da ammonimento (discutibile) da parte degli Stati Uniti nei confronti del Cremlino, reo di aver assecondato le istanze secessioniste della maggioranza russofona in Crimea, era quello di bloccare e paralizzare l’apparato bellico/militare russo, che continuava a rifornire lungo la linea di confine sud-ovest, specificatamente dall’Oblast di Volgograd, le Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk.
Non a caso, precisamente il 4 agosto 2014, il primo giorno in cui gli effetti delle azioni sanzionatorie entravano in vigore, il ministro dell’Economia tedesco Sigmar Gabriel annunciava il blocco della consegna di attrezzature per l’addestramento militare alla Russia. Lo stesso ministro tedesco specificava che il governo aveva ritirato l’autorizzazione concessa all’azienda Rheinmetall di esportare materiale bellico e infrastrutturale per il valore di 128 milioni di euro, destinato alla formazione di 30mila soldati in suolo russo.
Con questa prima mossa sembrava che le sanzioni fossero un’arma efficace per fermare la azioni di Putin in Ucraina.
Già all’indomani dei falliti colloqui tra il segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov inerenti la crisi generata nella regione dalle rivolte di Maidan, in Europa, negli Stati Uniti e nel resto del mondo come in Russia sembravano essere ritornati i vecchi paradigmi da Guerra Fredda. Ricomparvero nei discorsi dei capi di Stato e dei loro delegati le allusioni a “noi” e “loro”, deformando e dimenticando le amichevoli relazioni che il commercio aveva costruito nei 25 anni precedenti.
Dati alla mano, nel giugno 2014 l’export dell’Ue verso la Russia ammontava a circa l’11%, mentre l’export russo verso la Ue era costituito dal 50% del totale.
L’interscambio tra i due vecchi blocchi, soprattutto quello intra-continentale all’Eurasia, sembrava favorire entrambe le parti fuorché l’establishment di Berlino, fiero rappresentante in Ue della fazione “sanzionista”. Il governo della Merkel infatti era quello che aveva meno rapporti commerciali con Mosca a discapito delle altre due grandi nazioni europee, Italia e Francia. Non a caso in quel periodo l’interscambio tedesco-polacco valeva allora più di quello tedesco-russo.
Per quanto riguarda la Federazione Russa, nello specifico a fine 2014 il gas e il petrolio insieme ad altre materie prima costituivano la maggioranza dell’export; questi dati risultano coerenti per un paese che cerca un rapido sviluppo imprenditoriale dopo l’immobilismo industriale degli anni ’80.
Ma il presupposto delle sanzioni sembrava non essere stato in grado di perpetrare il suo fine, dato che Mosca adattò in pochi mesi la propria economia al nuovo scenario internazionale, spostando il proprio baricentro finanziario verso est e guardando con particolare interesse all’interscambio con due partner privilegiati come India e Cina. “Guardare a est presenta buone prospettive, in particolare per la Russia più remota”, sostenne il vice primo ministro Arkady Dvorkovich dopo appena due mesi dall’entrata in vigore delle misure restrittive.
Nonostante le contromisure prese per tempo dal governo federale, il 2015 risultò essere però un anno duro per l’economia russa; la recessione sembrava il proiettile perfetto esploso dall’arma delle sanzioni, pensando di aver onorato il loro compito, le misure restrittive attuate dai governi occidentali sembravano essere state la giusta opzione. Gran parte degli osservatori internazionali erano certi di vedere il presidente Putin mollare la presa “ideologica” (e occultamente militare) sulle enclavi russofone nell’est dell’Ucraina, sicuri dell’infallibilità dell’arma economica. Ma nel 2016, accade ciò che l’ex ministro delle Finanze, Alexei Kudrin, aveva previsto accadesse solo dopo 20 anni, ovvero lo spostamento del baricentro economico-commerciale e finanziario da ovest verso est.
L’economia russa, superando anche le più rosee aspettative dello stesso establishment di Mosca, riuscì a scalare 11 posizioni nel rapporto “Doing Businees”; relazione stilata annualmente dalla Banca Mondiale, la quale redige ogni anno una classifica sulle nazioni dove vi è più capacità di fare impresa. Tale risultato è stato raggiunto nei soli dodici mesi successivi all’entrata in vigoredelle sanzioni, riuscendo il ministero dell’Economia con sole cinque riforme, ad aumentare la propria attrattività nei confronti degli investitori stranieri. In particolare, gli esperti della Banca Mondiale rilevano come la semplificazione dell’accesso alla rete elettrica; la rete internet veloce, stabile, economica e sicura; la facilità nella registrazione dei titoli di proprietà che colloca la Russia all’8. posto nel mondo e la garanzia dell’applicazione dei contratti che la colloca al 5. posto, siano stati i fattori che hanno contribuito e determinato l’ottimo risultato nel rating.
Partendo da queste solide basi, l’intero corso del 2016 ha visto enormi migliorie in vari settori, soprattutto nel campo agro-alimentare, della farmaceutica e del turismo.
Nei primi due settori sono chiari gli esiti positivi che sono scaturiti dal processo di sostituzione dell’import. Ad oggi l’industria farmaceutica appare uno dei settori più dinamici dell’economia russa, perfezionamento generato sia dalla cessazione delle massicce importazioni di prodotti farmaceutici, sia dai grandi investimenti che il governo ha destinato per migliorare il settore. Inoltre se il flusso di tali investimenti statali non dovesse cessare negli anni a seguire, tale settore in prospettiva diventerebbe un’ulteriore importante voce alla lista dell’export Made in Russia.
Per quanto riguarda l’industria chimica invece, si stanno compiendo enormi passi in avanti nella produzione di colori organici, delle lacche colorate, del caucciù sintetico e dell’etilene. A beneficiare del trend positivo saranno anche i produttori di fertilizzanti che, con il rublo debole, registreranno nel 2016 un rilevante aumento dei loro fatturati grazie all’export.
In più i dati raccolti dal ministero dell’Agricoltura durante lo stesso 2016 mostrano come la Russia abbia provveduto alla copertura del proprio fabbisogno di grano, patate, zucchero e olio alimentare per l’intero anno; lo stesso ministero inoltre prevede che entro la fine del 2017 i russi potenzieranno la loro autonomia dall’import di carni ovine e bovine e tra sei anni questa dipendenza scomparirà del tutto.
Sempre nel 2015 dati alla mano le esportazioni agricole russe hanno superato le esportazioni di armi, risultato di sostanziale importanza per capire come l’economia russa si sia adattata allo shock esterno delle sanzioni, senza ripiegarsi su se stessa.
Secondo quanto riportato da “Der Spiegel, sempre nel 2015 la Federazione Russa ha prodotto più grano degli Stati Uniti: 110 milioni di tonnellate, una cifra mai raggiunta che ha trasformato la Federazione nel primo produttore mondiale. Umoristicamente e con una vena di ironia il ministro dell’Agricoltura Alexander Tkachev, dopo quasi 18 mesi dal varo delle sanzioni europee, si augura che esse siano prolungate per altri cinque anni perché, come riporta Eurasiatx, “esse di fatto hanno permesso di cambiare in positivo lo status del comparto alimentare russo aumentando la produzione, implementando la tecnologia (…) e attuando quell’import substitution che oggi rende la Russia auto-sufficente nel settore agricolo”. Tale ottimismo del ministro Tkachev, così come quello delll’intera squadra di governo del presidente Vladimir Putin, non è stato generato solamente dagli ottimirisultati raggiunti in quei settori che dovevano essere i più danneggiati dalle sanzioni ma perché di fatto l’economia russa, in acuta recessione nell’intero 2015 ed in parte nel 2016 con il rublo svalutato ed il prezzo del petrolio ai minimi storici, ha dimostrato di reagire con un inaspettato attivismo.
La notizia più sorprendente dell’effetto inaspettato e devastante delle sanzioni è data dal fatto che il danno economico più che avvenire ad est è ricaduto su quella parte d’Europa che pensava essere immune da una tale cieca e bieca scelta politica. Solo in Italia il costo della guerra commerciale tra Ue e Russia è costata quasi 4 miliardi di euro ai danni dell’export; si è passati dai 10,7 miliardi del 2013 ai 6,9 miliardi di euro nel 2015, facendo scivolare così la Russia dal sesto al tredicesimo posto nella lista dei paesi verso cui è orientato l’export italiano.
Le sanzioni dopo quasi due anni e mezzo dal loro varo oltre ad aver indirizzato e forse anche aggiustato quei settori dell’economia russa, che erano storicamente ed ampliamente sostenuti dall’import di quelle nazioni considerate commercialmente amiche, come l’Italia, hanno mostrato come possa risultare fallace nell’era della globalizzazione un’arma storicamente amica dell’occidente come l’economia.
Un monito va fatto all’Italia, nella speranza di non subire in futuro ulteriori condizionamenti nelle scelte fondamentali di politica estera ed economica da quelli che sono rapporti con organizzazioni sovranazionali come l’Unione Europea.