Se le banche portano i miliardi nei paradisi fiscali…

di C.Alessandro Mauceri

Se un cittadino europeo cerca di portare illegalmente una parte dei propri risparmi in un paradiso fiscale, il suo comportamento criminale viene subito condannato. Se a spostare portare la propria sede (e i propri guadagni) all’estero è una multinazionale, i governi si riuniscono e cercano di trovare una soluzione per limitare i danni. Ma se a fare la stessa cosa sono alcune delle maggiori banche europee (anche italiane) la situazione cambia. É quanto emerge dalla ricerca condotta dall’Osservatorio Fiscale Ue, i cui ricercatori hanno analizzato i conti di 36 grandi banche tenute a rendicontare pubblicamente i dati sulle proprie attività, paese per paese. Dalla ricerca è emerso che ogni anno alcune delle principali banche europee sposterebbero i propri profitti nei cosiddetti paradisi fiscali, circa 20 miliardi di euro, per pagare meno tasse.
Nei mesi scorsi, fallito il tentativo del presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden di ottenere un’aliquota minima globale di imposta per le multinazionali pari al 21%, i colloqui organizzati dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) hanno avuto come esito l’accordo che prevede un’aliquota del 15% per tassare gli utili delle multinazionali. Ben 130 paesi (circa il 90% del PIL mondiale) hanno sottoscritto questo accordo, e tra loro anche l’Italia, e molti capi di stato e di governo hanno presentato questo risultato come una vittoria, nonostante l’Osservatorio Fiscale dell’Ue avesse evidenziato i vantaggi derivanti dal mantenere un’aliquota minima globale non inferiore al 25%, l’aliquota più bassa attualmente tra le sette maggiori economie mondiali. Una tassazione così bassa avvantaggia le multinazionali nel confronto con le piccole e medie imprese locali, peraltro svantaggiate anche dal fatto di non potere utilizzare manodopera a basso costo, materie prime a prezzi molto più bassi e maggiori volumi di produzione.
C’è stato però chi ha ritenuto la tassazione degli utili al 15% troppo alta, a cominciare dalla più grandi banche del mondo, e per questo l’accordo siglato non dovrebbe valere per queste aziende, anche a causa delle pressioni della City di Londra e di altri centri finanziari internazionali. Il motivo di questa presa di posizione è semplice: secondo il rapporto appena presentato dall’Osservatorio fiscale dell’Ue, le banche portano i propri utili in paradisi fiscali dove pagano già aliquote ben più basse del 15%. Anche molte banche europee fanno così. Banche come Barclays, HSBC, NatWest (già Royal Bank of Scotland) e molte altre, secondo lo studio. A dimostrarlo il fatto che gli utili di alcune banche tassati nei paradisi fiscali sono cresciuti in modo anormale, circa 238mila euro di profitto per dipendente nei paradisi fiscali, a fronte di 65mila euro nei paesi “non paradisi”.
I ricercatori hanno analizzato oltre 30 istituti bancari. Molte le differenze nelle politiche adottate per ridurre la tassazione degli utili: nove di queste banche non sarebbero coinvolte nella corsa verso questi paradisi fiscali, per molte altre, invece, la percentuale degli utili portati nei paradisi fiscali sale (fino al 58% di HSBC). Un fenomeno, come se non bastasse, che per alcune banche mostra un trend crescente: per almeno otto delle banche analizzate, nell’ultimo anno, la percentuale degli utili contabilizzati nei paradisi fiscali è aumentata (HSBC +7,9%, Barclays +4,3%, Nordea + 2,1%, BBVA +1%, Banco Santander + 0,8% e Rabobank + 0,7%. Tra loro anche per alcune banche italiane: Monte dei Paschi di Siena e Intesa Sanpaolo (che ha giustificato questa scelta parlando delle perdite subite nei mercati non-rifugio).
Il ricorso ai paradisi fiscali ha avuto un’impennata dopo la crisi finanziaria del 2008: molti hanno ritenuto utile versare trilioni di euro dei propri clienti in paradisi fiscali e utilizzarli come scorte per salvare le banche in difficoltà in Europa. Ma il vero motivo potrebbe essere un altro: pagare le tasse nella maggior parte dei paesi europei costerebbe miliardi e miliardi di euro, da 10 a 13 in più. Meglio “spostare” gli utili altrove. Dove? La ricerca parla di 17 paesi e territori considerati paradisi fiscali ai fini dello studio: Bahamas, Bermuda, Isole Vergini Britanniche, Isole Cayman, Guernsey, Gibilterra, Hong Kong, Irlanda, Isola di Man, Jersey, Kuwait, Macao, Malta, Mauritius, Panama e Qatar. Paesi dove l’aliquota fiscale effettiva varia. Quella più elevata sarebbe in Lussemburgo: 15%, molto per un paradiso fiscale ma davvero poco se paragonato al carico fiscale che grava sulle piccole imprese degli altri paesi europei. In altri paesi si paga molto meno. In alcuni non si paga nulla: Bermuda, Panama, Isole Vergini Britanniche e Isole Cayman hanno un’aliquota pari a zero.
La ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati sul Guardian, cita il commento del portavoce di HSBC che ha dichiarato che la banca “non ha utilizzato strategie di elusione fiscale, comprese quelle progettate per deviare artificialmente i profitti verso giurisdizioni a bassa tassazione”. Un portavoce di Barclays si è limitato a dire che la banca paga le tasse nelle giurisdizioni in cui opera e che è il quinto contribuente del Regno Unito. NatWest invece avrebbe preferito non rispondere quando le è stato chiesto di commentare i dati. Peccato che i numeri ottenuti calcolando il rapporto tra l’imposta aggregata pagata e l’utile registrato in tutte le giurisdizioni dica che questi paradisi fiscali piacciono alle banche. E non poco. Lo dimostra il fatto che l’aliquota fiscale effettivamente pagata da alcune di queste banche appare insolitamente bassa.
Al contrario appaiono elevati i mancati introiti per l’erario di molti paesi europei. “Troviamo che la maggior parte delle entrate fiscali con una tassa minima proverrà dalle banche britanniche”, scrivono gli autori del rapporto Have European Banks Left Tax Havens. Secondo i ricercatori dell’Osservatorio fiscale dell’Ue, l’erario britannico sarebbe stato il primo a beneficiare dell’applicazione di un’aliquota fiscale minima globale scongiurando la corsa delle banche verso i paradisi fiscali. Costringere le banche a pagare un’aliquota fiscale minima pari al 15% avrebbe permesso alle casse dell’erario di sua maestà di recuperare 940 milioni di euro in più solo nel 2020, e 1,47 miliardi di euro in più nel 2019.
Oggi i sistemi fiscali della maggior parte dei paesi del mondo appaiono incapaci di seguire (e inseguire) gli spostamenti di capitali verso paradisi fiscali. Giri di denaro multimiliardari che ogni anno permettono a multinazionali, ricconi e… evasori di non versare ai vari paesi una cifra astronomica: si stima che ammontino almeno a 427 miliardi di dollari i mancati guadagni e le tasse non pagate da multinazionali e individui benestanti, (dati Tax Justice Network).
Una situazione che, nonostante le denunce e le promesse di tanti politici, non è migliorata nel tempo: la percentuale di profitti registrati nei paradisi fiscali non è cambiata negli ultimi sette anni.
Un problema che non riguarda solo le multinazionali o i ricconi di turno: riguarda prima di tutto le banche. Anche quelle europee.

Per approfondire: i dati del rapporto EU-Tax-Observatory-Report-2-Banks-and-tax-havens-1.pdf (taxobservatory.eu)