Senegal. Scontri tra ribelli ed esercito nel Casamance

di Giuseppe Gagliano –

Nel cuore verde e ferito del Senegal, nel Casamance continua a esserci violenza. Il 16 aprile, un’operazione dell’esercito senegalese nel settore di Mongone si è conclusa con uno scontro armato: un soldato ferito, uno scomparso. Nulla di nuovo, si dirà. Ma ogni episodio è il segnale che un conflitto apparentemente “a bassa intensità” continua in realtà a erodere la stabilità del Paese.
L’azione militare è scattata in risposta a un attacco condotto da uomini armati non identificati nella notte tra il 15 e il 16 aprile, nel villaggio di Djinaki. I banditi hanno saccheggiato negozi e rubato denaro e telefoni, provocando l’intervento immediato dell’esercito. Il comunicato della DIRPA (Direzione delle relazioni pubbliche delle forze armate) è laconico ma denso: si parla di rastrellamenti, di uno scontro a fuoco e di una caccia all’uomo ancora in corso. La priorità, viene detto, è la “sicurezza delle popolazioni e dei loro beni”. Ma il linguaggio della sicurezza, in Casamance, è da decenni il più fragile e il più abusato.
La regione meridionale, incuneata tra Gambia e Guinea-Bissau, è separata geograficamente e storicamente dal resto del Paese. Qui, nel 1982, prese le armi il Movimento delle forze democratiche di Casamance (MFDC), dopo la repressione brutale di una manifestazione a Ziguinchor. Quella che fu un’insurrezione periferica si è trasformata nel tempo in una guerra dimenticata, che ha causato migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati, devastando un’economia agricola già marginale.
Negli ultimi anni, le autorità senegalesi hanno tentato di chiudere il dossier Casamance. Il governo ha annunciato la distruzione di diverse basi ribelli, ha favorito il ritorno degli sfollati e ha firmato due accordi: uno nel 2022, l’altro nel febbraio 2025, con la mediazione del presidente della Guinea-Bissau, Umaro Sissoco Embaló. Quest’ultimo intendeva suggellare una tregua definitiva tra lo Stato senegalese e il fronte meridionale del MFDC, guidato da Ousmane Sonko, ora primo ministro e originario proprio di Ziguinchor.
Ma i fatti smentiscono le intenzioni. L’ennesimo attacco armato dimostra che il controllo sul territorio è ancora frammentario, che la ribellione si muove sotto traccia, che le frange più irriducibili, forse collegate a traffici illegali transfrontalieri, non sono mai state pienamente disarmate. I tentativi di accordo, per quanto sinceri, si scontrano con l’asimmetria tra gli attori coinvolti e con la persistente mancanza di una strategia politica e sociale inclusiva.
A tutto ciò si aggiunge il problema della legittimità: l’accordo del 2022 fu siglato con Cesar Atoute Badiate, capo ribelle condannato all’ergastolo in contumacia. I negoziati del 2025, invece, coinvolgono rappresentanti più istituzionali, ma restano ancorati a logiche militari, con pochi dettagli su reinserimento, giustizia riparativa o sviluppo economico. Il rischio? Che la Casamance resti un capitolo sospeso, utile alla retorica della pacificazione ma incapace di produrre pace vera.
Per ora, un soldato senegalese risulta disperso. È il simbolo di una guerra che ancora non si trova, ma non si è mai davvero persa. Né vinta.