Sicurezza economica e geoeconomica

di Massimo Ortolani

Nel delineare il percorso definitorio della nozione di sicurezza economica, all’interno del più ampio significato di sicurezza nazionale e di interesse nazionale (IN), è utile iniziare facendo riferimento agli elementi costitutivi della Sicurezza Nazionale, così come presentati nel glossario del Dipartimento Informazioni sulla Sicurezza DIS (1). In primo luogo perchè ne sottolineano la caratterizzazione dinamica, in quanto legata al contesto storico-temporale di riferimento. Ma anche perchè segnalano la rilevanza strategica oggi assunta dai concetti di sicurezza economica, di sicurezza ambientale e di difesa dell’interesse nazionale, in quanto ricollegabili agli interessi politici, militari, economici, scientifici ed industriali dell’Italia.
L’eterogeneità degli elementi così elencati potrebbe indurre a prefigurare un percorso analitico vago, o persino dispersivo, se non fosse che, a dare unitarietà investigativa ad esso, soccorre oggi una disciplina di riconosciuto rilievo strategico, sussidiarie complementare a quella dell’analisi geopolitica, come la geoeconomia. Alla quale più di recente si sono aggiunti i tre nuovi approcci all’economia politica, di seguito indicati. Volendo mantenere il focus analitico su elementi informativi necessari ad evitare la diffusa confusione concettuale tra la geopolitica e la geoeconomia, una preliminare definizione di questa ultima, che si ritiene significativa ed appropriata, è quella (2) che la geoeconomia è ad un tempo sia una strategia di politica estera che un approccio analitico. La geoeconomia si riallaccia infatti alla scuola del Realismo geopolitico enfatizzando la nozione di rivalità tra gli Stati (3), Ma, senza considerare la forza ed il conflitto militare come ultima ratio nella politica internazionale, si presta ad efficientarne gli esiti con il ricorso anche all’armamentario delle misure economiche. In tal modo vengono a configurarsi nuovi strumenti concettuali per analizzare le forme di proiezione del potere. Tenendo pertanto presente che il modo in cui gli Stati definiscono i loro interessi nazionali non è solo una funzione delle strutture internazionali, ma anche e soprattutto il risultato di una competizione politica interna, dettata dal generale soddisfacimento dell’interesse nazionale.
Un secondo pilastro definitorio della geoeconomia poggia sulla strategia delle molteplici forme di dominio spaziale, più che territoriale. Infatti, secondo il pensiero del politologo di scuola realista J.J.Mearsheimer (4), è difficile che una grande potenza diventi egemonica senza potere esercitare tale egemonia in una qualche area del globo. Condizione che supporta il suo convincimento che la geopolitica vince sulla geoeconomia, se uno stato dispone di una quantità di potere relativa, ovverosia di capacità militari sufficienti per creare la necessaria deterrenza e per “vendere cara la pelle”. Ma, come già segnalato da Sholvin e Wigell la geoeconomia, nella misura in cui si concentra sulle caratteristiche geografiche inerenti alla politica estera e alle relazioni internazionali, può per ciò stesso occuparsi delle basi economiche del potere che hanno estrinsecazione nella dimensione geografica, come nel caso della distribuzione geografica delle risorse materiali, dei corridoi strategicamente cruciali e della formazione opportunistica del commercio internazionale. A tali basilari assunzioni può inoltre aggiungersi anche quella che la geoeconomia si occupa di come gli strumenti economici vengono utilizzati per controllare particolari aree geografiche, come appunto la sfera di influenza di una nazione egemone regionale, di cui ci si può servire con finalità geopolitiche, per impedire o facilitare investimenti esteri nella produzione di materie od apparati di rilevanza strategica ai fini del mantenimento/accrescimento della stessa egemonia di potere.
In ogni caso, nell’intento di esplicitare il costrutto teorico fondativo della geoeconomia non si può che iniziare dal contributo (5) di E. N. Luttwak, che aveva giustamente intuito come in un mondo in cui, dopo la seconda guerra mondiale, il conflitto militare tra i principali Stati diviene improbabile, è il potere economico a divenire sempre più importante nel determinare la supremazia o la subordinazione degli Stati. Tanto che, nella struttura teorica iniziale di Luttwak, la geoeconomia avrebbe dovuto sostituire la geopolitica, se non divenirne la componente predominate nella determinazione della gerarchia e del rango tra gli stati. In proposito l’autore spiega che la logica della competizione geoeconomica è quella della guerra, mentre la grammatica, cioè la tattica, è quella dell’economia.
Una affermazione che sottende verosimilmente ad un approccio di tipo strategico-militare all’economia, e che porta ad identificare anche nella nuova arma del soft power lo strumento per realizzare la crescita del benessere nazionale. Tuttavia, le idee di Luttwak hanno perso smalto nel corso del tempo per due fondamentali ragioni. In primo luogo perché la competizione tra stati ha iniziato a manifestarsi nel sostegno a conflitti militari locali, il cui esito avrebbe spostato l’equilibrio di potenza a favore/sfavore dei gruppi di stati alleati antagonisticamente dei soggetti locali in conflitto, non sempre rappresentati da eserciti governativi, ma anche da organismi insurrezionali o di matrice terroristica.
Ovvero a manifestarsi sull’onda di nostalgici spiriti patriottardi e a soverchie aspirazioni alla riconduzione del territorio nazionale alle maggiori dimensioni che un tempo aveva, come nella narrazione putiniana di giustificazione dell’invasione dell’Ucraina. In secondo luogo perché, in contemporanea, il Washington Consensus, tempo fa sembrava essersi radicato in una visione del sistema internazionale di natura più cooperativa, in modo da consentire a tutti di beneficiare dei vantaggi della globalizzazione come generatore di crescita economica e, sperabilmente per taluni, anche di cambiamenti di natura politico-culturale idonei a creare le condizioni per la diffusione della democrazia nei paesi, potenza militare, a regime autocratico. Era andata infatti diffondendosi, sulla spinta dell’accordo sul “World Trade Organization” siglato nel 1994 a Marrakesh, l’idea che il mercato potesse funzionare come matrice della democrazia, della pace e del benessere per tutti.
Se l’ambito della geopolitica è quello della disciplina che studia le relazioni fra geografia fisica e umana da un lato, e le scelte politiche interne e internazionali dall’altro, si può a buon diritto sostenere che interdipendenza di fattori geostrategici e connettività hanno sostituito la divisione come nuovo paradigma dell’organizzazione globale, si pensi in particolare alla rete internet e alla geofinanza, con il conseguente affievolimento intertemporale del fattore geografico-territoriale su scala mondiale come sede del conflitto geoeconomico. Cui ha peraltro fatto riscontro la tendenza al perseguimento di finalità geoeconomiche nazionali, attraverso progetti e misure di politica economica omogenee con i fini ultimi di uno stato, mirati in altri termini all’ottenimento della stabilità e della sicurezza nazionale.
Attualmente, l’integrazione del vantaggio tecnologico nella strumentazione della difesa, basato su limitazione normativa del commercio di apparati e software, e finalizzato al mantenimento di una superiorità di deterrenza militare, rappresenta una plastica esemplificazione di interdipendenza fattuale della geopolitica con la geoeconomia. Ancora, l’approccio alla geoeconomia finalizzato alla guerra economica e normativa, pur facendo riferimento alla descrizione di strategie economiche spaziali, dà inoltre risalto ad un modo di vedere le relazioni economiche su base mondialistica in cui anche strategie “opportunistiche” vengono viste come plausibili e desiderabili. Tanto da rendere ammissibili, come azioni di natura geoeconomica per il vantaggio della prima mossa, ovvero il servirsi di nicchie non coperte dalle regole economiche internazionali, comprese quelle che possono essere create distorcendo tali regole ovvero violandone contenuto e finalità (6). Da qui l’emergere del ruolo delle istituzioni internazionali nella narrativa in materia, come in quella di M. Leonard, quando sostiene che ci sono tre nuovi ambiti in cui si svolgono i conflitti tra gli Stati: l’economia, le istituzioni internazionali e le infrastrutture (7). A cui si collega, peraltro, l’intenzionalità geoeconomica di potere influire sulla nomina dei vertici di organismi sovranazionali di vigilanza e regolazione del commercio (WTO), o di finanziamento su scala globale: FMI, Banca Mondiale, ecc, ovvero di bloccarne parzialmente il funzionamento. Circostanze che esplicitano le modalità di interdipendenza tra esigenze di geopolitica e di geoeconomia da una parte e di confusa frammentazione dell’ordine internazionale dall’altra. Con l’emersione di un multilateralismo regionale costretto ad una negoziazione continua degli interessi in gioco, ma che può rivelarsi molto spesso insoddisfacente per tutti, o per i principali attori interessati. Con palesi evidenze nella mancanza di esiti concordati alla Conferenza sul clima, quelli del recente G20 indonesiano, per finire con le ingessature decisionali gestite in chiave geopolitico-geoeconomica all’interno dei paesi membri dell’ONU. Vicende che segnalano con chiarezza l’assenza di una condivisione globale della leadership, l’indebolimento di quella occidentale e comunque limiti e debolezze di una interpretazione del ruolo del multilateralismo in una ottica di competizione geostrategica di stampo strettamente luttwakiano (8).
Come chiaramente esplicitato in Sholvin e Wigell (2), altri studiosi della materia hanno fornito ipotesi interpretative dei processi geoeconomici parzialmente divergenti dal solco luttwakiano nella misura in cui, pur focalizzandosi su trend e fenomeni di rilevanza internazionale, segnalano che l’oggetto complessivo dell’analisi geoeconomica deve essere focalizzato non solo sulle regole e la pratica della competizione strategica sui mercati globali, ma anche sulle condizioni e sui fattori che garantiscono prospetticamente sviluppo e mantenimento della capacità di competizione e della crescita economica di un paese o di sue aree geografiche, e/o di specifici settori produttivi. E tenendo a tal fine in conto tutti i fattori produttivi in gioco, ivi incluse le politiche di tutela della concorrenza, di incentivazione industriale e di attrazione fiscale di investitori esteri, mirate a rafforzare il meccanismo auto-propulsivo del paese.
A conclusione di quanto premesso, si condivide però solo parzialmente la definizione di geoeconomia fornita da Sholvin e Wigell, per i quali la geoeconomia, come strategia di politica estera, si riferisce all’applicazione dei mezzi economici di potere per realizzare obiettivi strategici. Ad avviso di chi scrive, infatti, sono le strategie di politica economica in generale ad essere oggetto della geoeconomia. Con la conseguenza di vedere inestricabilmente associata tale disciplina più che all’economia politica tradizionale, a quei modelli analitici della cosiddetta New Political Economy (NPE) che paiono fornire un parallelismo investigativo agli approcci propri della geoeconomia. Poiché gli studiosi della NPE considerano le ideologie economiche come fenomeni rilevanti da spiegare con l’economia politica. Giova in proposito ricordare come Charles S. Maier, uno dei noti sostenitori di questo approccio, storico di professione e profondo studioso di scienze sociali, abbia sottolineato come la NPE tenda ad interrogare le dottrine economiche per rivelare le loro premesse sociologiche e politiche. Una affermazione ampiamente sostenuta dalla evidenza storica.
Al tempo dei blocchi geopolitici della Guerra fredda, infatti, conflitti ed insurrezioni nei paesi in via di sviluppo erano spesso alimentati e sostenuti da potenze appartenenti ad uno dei due blocchi ideologici, per instaurare governi allineati o sostenitori di queste stesse ideologie. Da molto tempo non è più così, poichè l’accettazione delle leggi dell’economia capitalistica è prevalsa sui diktat ideologici, anche in nazioni un tempo radicalmente avverse all’economia di libero mercato, seppure realizzandosi con contaminazioni imperfette ed in forme ibride ed originali, come nel caso del socialismo di mercato cinese.
A questo riguardo è doveroso accennare anche alla IPE (International Political Economy) (9), che si occupa dell’interazione tra economia e politica nell’arena mondiale focalizzandosi sia sul modo in cui le decisioni politiche influenzano le operazioni di mercato, sia il modo in cui le forze economiche plasmano le decisioni politiche. Così come anche al settore degli emergenti studi accademici riconducibili al filone della Political Economics, un campo interdisciplinare che si concentra sull’attività collettiva e politica sia di nazioni che di gruppi di individui. Con percorsi di indagine nei quali, lungi dal concentrarsi sulla teoria normativa della politica economica e sui metodi di massimizzazione del benessere economico collettivo, l’analisi dei tradizionali modelli formali di scelta razionale, di azione collettiva e di istituzioni politiche, viene invece associata quella della politica comportamentale e della competizione politica ed economica, compresa l’identificazione degli effetti causali.
Non è affatto difficile individuare diacronicamente, nel panorama geografico mondiale, esempi di come si siano inestricabilmente intrecciate geopolitica e geoeconomia, stanti gli esiti più eclatanti di politiche geoeconomiche attivate da grandi e medie potenze, sia con intenti difensivi che offensivi. Il Forum degli incontri ai massimi livelli che si riunisce sotto l’egida del G20 che a fine 2022 rappresentava oltre l’80% del PIL mondiale ed oltre il 60% delle popolazione del globo, è certamente il gruppo di maggiore spessore geoeconomico potenziale. Anche se oggi ne mostra evidenti limiti a causa dell’affievolimento delle prospettive della cooperazione internazionale, minacciata dalla guerra in corso e dalla rischiosa confrontazione egemonica tra USA e Cina (10).
Mentre l’accordo CSI tra alcuni stati indipendenti formatisi all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica, con l’intento di spaziare dalle politiche di assistenza militare a quelle socio-economiche, ha certamente favorito nel tempo nascita di accordi a matrice prettamente economico-commerciale, quali l’UEE (Unione Economica Euroasiatica). Parimenti l’organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO), un organismo che raggruppa tra le numerose nazioni aderenti, due potenze quali Russia e Cina, opera con una mission istituzionale finalizzata sia alla cooperazione per la sicurezza, che a quella economica, in particolare relativa allo sviluppo energetico. Per i paesi aderenti a tali accordi, la commistione che in tal modo viene a crearsi tra impegni istituzionali, economico-finanziari e di difesa, mira a rafforzare vincoli ed progetti operativi che amplificano per ciascuno di essi il paradigma elaborativo del significato di sicurezza nazionale.
Ma i più qualificanti esempi in tal senso sono rinvenibili neIle azioni ad impatto geostrategico riconducibili sia all’associazione BRICS, che vede riuniti al suo interno cinque paesi caratterizzati da un’economia emergente e relativamente in forte ascesa: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, come anche al ben noto accordo di BRI ideato e proposto dalla Cina. Nel caso dei BRICS l’interesse di India, Brasile e Sudafrica, non alleati della Russia anche sul piano geopolitico come invece per la Cina, il potere di congiunte e coordinate azioni di geoeconomia fornisce loro gradi di libertà operativa che con singole iniziative politiche non potrebbero permettersi. L’obiettivo è fondamentalmente quello di allontanare dal proprio ambito nazionale tutte le minacce che la geofinanza, il nuovo driver dell’economia mondiale, continua ad generare, a partire dall’egemonia del dollaro, del tasso di cambio e dei tassi di interesse legati a prestiti in tale valuta, che costituiscono per le loro politiche economiche nazionali fonte di potenziali squilibri e un ingombrante “vincolo esterno”. Ragioni per le quali si stanno preparando a creare una loro valuta di riserva internazionale, consapevoli comunque che l’effetto geostrategico che ne discenderebbe avvantaggerebbe maggiormente la Cina, per la competizione geopolitica strategica in corso con gli USA.
In questo contesto di pace geoeconomica “fredda”, la preoccupazione degli USA per il rafforzamento della propria secureconomics, in quanto garantibile da egemonia o predominio in campo tecnologico, rappresenta il principale movente operativo della tutela dell’ interesse nazionale. Dal canto suo Pechino da circa un decennio sta dando corso alle iniziative di investimento prevalentemente infrastrutturale della BRI per coltivare connessioni ed influenza (11) con intenti di diplomazia sia economica (apparente) sia politica (sotterranea). Nel primo caso si tratta di potere mettere più facilmente le mani su materie prime strategiche, ma anche semplicemente agricole, delle quali la Cina necessita per le proprie esigenze di consumo, di produzione interna e per il suo export. Mentre gli effetti indiretti sul piano geopolitico sono rinvenibili nella più facile ottenimento di sedi all’estero per basi militari cinesi e, soprattutto, nel sostegno o meno, da parte dei paesi beneficiari, all’emanazione di atti o normative presso organismi sovranazionali che possano impattare positivamente, ovvero negativamente, sull’interesse nazionale di Pechino. Di rilievo inoltre l’assertività cinese recentemente dimostrata nell’intensificazione della cooperazione economico-finanziaria con 5 paesi dell’Asia centrale, (Dichiarazione di Xian, maggio 2023) e per ottimizzare la ricerca cinese di una maggiore sicurezza energetica ed alimentare (12).
Per precisione contenutistica, nel definire il ruolo della geopolitica e della geoeconomia su scala globale è però doveroso accennare anche alla rilevanza dei paesi neo non-allineati, cosiddetti pragmatici, o transazionisti per qualcuno, o borderline, secondo lo scrivente. Se consideriamo infatti la composizione dei paesi aderenti al gruppo dei BRICS, notiamo come Brasile, India e Sudafrica non appaiono politicamente vicine al blocco anti-USA di Cina e Russia. Di più, l’india è partecipe del QUAD, l’alleanza strategica militare informale, con Australia, Giappone e Stati Uniti, mirata al contenimento dell’influenza geopolitica e geoeconomica cinese nella regione dell’Indo-Pacifico. Il ruolo dell’India in tale alleanza si spiega dal punto di vista militare e geopolitico in ragione delle non del tutto sopite confrontazioni belliche di confine con la Cina sulle montagne dell’Himalaya, ma soprattutto perché la sua collocazione geografica permetterebbe più facilmente alle flotte militari di chiudere alle navi cinesi gli stretti indonesiani, e quello di Malacca in specifico.
Da considerare peraltro anche la crescente assertività dell’Arabia Saudita, recentemente mostrata nella sua ricerca di autonomia diplomatica per relazioni internazionali che le consentano di muoversi più liberamente in questa fase multipolare.
Al pari dell’India, anche la Turchia di Erdogan opera con intenti definibili di opportunismo geostrategico, sfruttando a suo favore i limiti intrinseci della cosiddetta “trappola delle alleanze”. Come membro della NATO la Turchia, e come membro del QUAD l’India, entrambi fanno valere verso gli USA tale alleanza sul piano della difesa per guadagnarsi mano libera nei rapporti geoeconomici sia con la Cina che con la Russia. Notorio l’acquisto di petrolio e gas russi a prezzi scontati da parte di Delhi, grazie alla decisione di non applicare sanzioni a Mosca in relazione all’invasione dell’Ucraina (13).
Di rilievo inoltre un ruolo pivotale, sul piano diplomatico, che la Turchia ha cercato di esercitare su tale conflitto. L’attrazione esercitata dall’attuale gruppo dei 5 membri BRICS è tale che altre 13 nazioni hanno espresso formale richiesta di adesione. Le ragioni per ciascuno appaiono evidenti riflettendo sul track geopolitico più o meno recente che li caratterizza, dall’Iran (esigenza di divincolarsi dall’impatto sanzioni) Argentina (crisi finanziarie), Arabia Saudita (potenza petrolifera e finanziaria, potenziale concorrente della Cina in tale ambito). Una congerie quindi diversificata di interessi nazionali e di mire geopolitiche che potrebbe in potenza creare tensioni per il coordinamento condiviso di azioni a rilevanza geostrategica, come potrebbe essere quella del comune ricorso ad una valuta diversa dal dollaro, o di altre iniziative di pari livello ma sempre in funzione antagonistica all’influenza degli USA, e più in generale dei paesi occidentali ad essi alleati. E’ comunque ipotizzabile che iniziative comuni dei Brics possano però concretizzarsi più facilmente nel guidare strategicamente le iniziative di geofinanza della Contingent Reserve Arrangement, il loro veicolo finanziario che ha lo scopo di aiutare i paesi con problemi finanziari e di bilancio, in buona misura in forma alternativa o complementare a quelli del FMI, ma anche della stessa Cina, nel caso di paesi aderenti alla BRI.
L’esemplificazione fatta su taluni membri Brics, ad avviso di chi scrive è sufficiente a dimostrare che ciascun paese, compresi naturalmente gli stati membri UE, tende ad orientare i propri progetti per la sicurezza economica in modalità simbiotiche tra geopolitica e geoeconomia. Ed il driver o criterio-guida in tale direzione non può allora che rinvenirsi nel perseguimento intertemporale dell’Interesse Nazionale. Un termine, “Interesse”, che se anche coniugato in relazione allo spazio vitale nazionale, rimane pur sempre polisenso, e temporalmente dipendente dall’ evoluzione del rapporto tra competizione geostrategica e sicurezza economica.

Note:
1 – Nuova edizione del Glossario intelligence (sicurezzanazionale.gov.it);
2 – Importante, al riguardo, il contributo analitico fornito ancora da ricercatori quali S. Sholvin e M. Wigell (PDF) Geo-economics as a concept and practice in international relations: surveying the state of the art (researchgate.net);
3 – Si veda: “Geo-economics and Power Politics in the 21st Century” – Wigell, Scholvin and Aaltola – 2018 – Routledge Global Security Studies;
4 – John J. Mearsheimer e la natura politica del potere – Sociologicamente;
5 – E.N.Luttwak: “From Geopolitics to Geo-economics. Logic of Conflicts, Grammar of Commerce in The National Interest” – 1990;
6 – C. Jean, P. Savona: “Geoeconomia. Il dominio dello spazio economico” – F. Angeli – 1997;
7 – Mark Leonard: ‘Introduction: Connectivity Wars’. In: Connectivity Wars: Why Migration, Finance and Trade Are the Geo-economic Battlegrounds of the Future – Ed. by Mark Leonard – London 2016;
8 – Su questo punto si veda: L’Occidente nella biglobalizzazione – Pagina 4 – fuoricollana;
9 – In materia si veda: “International Political Economy”- Perspectives on Global Power and Wealth By Jeffry A. Frieden, David A. Lake – 2000 – Routledge – L’economista premio Nobel D. Rodrik insegna Economia Politica Internazionale alla Harward University;
10 – La geoeconomia del G20: com’è cambiata negli ultimi trent’anni – Università Cattolica del Sacro Cuore (unicatt.it);
11 – E’ importante riflettere sul fatto che un investimento infrastrutturale cinese fornito ad un paese africano a titolo quasi gratuito, come la costruzione di uno stadio nella capitale, è in grado di esercitare un effetto psicologico di soft power, di grande impatto persuasivo nella negoziazione cinese con la classe politica locale;
12 – I programmi della BRI hanno una diffusione mondiale, con export crescente in Africa, nei paesi del blocco Asean, negli stati dell’Europa Centrale e Orientale, in America Latina, nei Paesi arabi, nelle isole del Pacifico, e con intenti sempre finalizzati ad erodere lo spazio di influenza geopolitica ed economica occupato dall’occidente;
13 – L’India continua ad essere un grande acquirente di armi dalla Russia, ma ha annunciato la creazione dell’iniziativa USA-India sulle tecnologie critiche ed emergenti.