Siria. La fine dell’Assadismo e il ritorno dell’ambiguità occidentale

di Giuseppe Gagliano

Mentre il segretario di Stato statunitense Marco Rubio lancia l’allarme su un imminente collasso della Siria “entro poche settimane”, un nuovo attore prende il posto del regime di Bashar al-Assad: Ahmed al-Sharaa, ex comandante qaedista ora riconvertito al verbo della stabilizzazione. Sotto l’egida benevola di Donald Trump, che lo definisce “giovane, attraente, tosto”, Washington apre a una revoca delle sanzioni economiche contro Damasco, additandola come l’unica via per evitare una nuova guerra civile. Il pericolo, si dice, è la frammentazione del Paese. Ma la storia siriana, e il ruolo giocato in essa dagli Stati Uniti e dai loro alleati, raccontano ben altro.
La Siria non esplode nel 2011 per caso. La lunga stagione repressiva del Baath, la gestione dinastica del potere da parte degli al-Assad, e la marginalizzazione di importanti minoranze avevano già scavato solchi profondi. Ma fu l’invasione americana dell’Iraq nel 2003 ad aprire i confini del caos mediorientale, creando il primo laboratorio jihadista in un’area decapitata, delegittimata e instabile. Da lì partirono migliaia di combattenti destinati a contaminare la Siria quando, nel 2011, il Paese venne investito dalla cosiddetta Primavera Araba.
La reazione di Bashar al-Assad fu brutale, ma speculare a quella degli altri regimi amici dell’occidente nella regione. La differenza? Al-Assad era alleato dell’Iran e del Libano sciita, e quindi automaticamente bollato come nemico. Ecco allora il fiorire di una narrativa che trasformava ogni oppositore del regime in “moderato” a prescindere dalla bandiera issata: tra questi, proprio al-Sharaa, oggi lodato come presidente ad interim, ieri militante jihadista.
Durante la guerra siriana gli Stati Uniti (prima con Obama, poi con Trump) hanno oscillato tra interventismo e disimpegno, in un’oscillazione schizofrenica che ha prodotto danni incalcolabili. Hanno sostenuto le milizie curde per combattere l’ISIS, ma le hanno poi abbandonate al cinismo geopolitico turco. Hanno dichiarato Assad “privo di legittimità”, ma ne hanno tollerato l’esistenza finché l’alternativa era lo Stato Islamico. Hanno inflitto sanzioni devastanti al popolo siriano in nome dei diritti umani, salvo oggi revocarle nel nome della realpolitik, accettando un ex qaedista come figura di transizione.
Ora Rubio ci racconta che, se non si aiuta il nuovo governo, la Siria potrebbe “dividersi”. Ma la Siria è già divisa: tra l’occupazione turca a Nord, le aree autonome curde a Est, la presenza iraniana e russa nelle zone controllate da Damasco e le enclave jihadiste sostenute da Paesi sunniti nella regione di Idlib. A Sud-Ovest, come conferma anche Reuters, Israele prosegue la propria strategia di “decostruzione” siriana, occupando territori e imponendo una smilitarizzazione che contraddice ogni idea di sovranità.
Nel frattempo, il Paese è in fiamme. Nonostante la presunta “liberazione” di Damasco, nelle ultime settimane si contano centinaia di morti tra gli alawiti, i drusi, i sunniti. I massacri a sfondo settario, le vendette incrociate, gli attacchi israeliani e l’assenza totale di una forza legittimata da tutte le componenti del Paese raccontano di una Siria che continua a implodere. Ma che nessuno vuole davvero salvare. Troppo importante tenerla in stato di paralisi per indebolire Teheran, contenere Mosca, tenere lontana la Cina e rassicurare Tel Aviv.
L’ultima narrazione americana, quella della “rinascita nazionale siriana”, è dunque solo l’ennesima giravolta semantica su una scacchiera in cui la democrazia è solo una parola da campagna elettorale. Che differenza c’è tra al-Assad e al-Sharaa, al di là dei baffi e del pedigree terroristico? Nessuna, se il metro resta quello dell’interesse strategico.
Quello che accade oggi in Siria è il frutto di una lunga catena di errori, cinismi e doppi giochi. L’occidente, in particolare gli Stati Uniti, non ha mai voluto davvero una Siria stabile, democratica e sovrana. Ha voluto solo una Siria docile, o al massimo frammentata. Che non minacciasse Israele, non aiutasse Hezbollah, non rafforzasse Teheran, non desse spazio alla Russia.
In questo senso, la Siria non è che il laboratorio fallito della geopolitica americana post-11 settembre. Un Paese schiacciato tra i diktat ideologici e i calcoli tattici, tra il feticcio dei diritti umani e l’imperativo della sicurezza di qualcun altro.
Se oggi Rubio teme una nuova guerra civile, non è per amore del popolo siriano. È perché quella guerra, come sempre, potrebbe sfuggire di mano e minacciare un equilibrio che l’occidente ha disegnato con il righello, ma su sabbia instabile.