Siria. L’ombra di al-Qaeda sul cambiamento di regime che fa esultare l’Occidente

di Giuseppe Gagliano

Con la caduta del governo di Bashar al-Assad si ripropongono gli stessi cliché narrativi già visti nelle destituzioni di Saddam Hussein e Muammar Gheddafi. La stampa internazionale, seguendo un copione consolidato, punta i riflettori sulle atrocità del regime, le sue carceri e il lusso della famiglia presidenziale, contrapponendo questa immagine a quella di un popolo affamato. Ma al di là della propaganda, il risultato di questo “regime change” è la vittoria di al-Qaeda, un risultato che, paradossalmente, sembra soddisfare alcune cancellerie occidentali.
La narrazione dominante descrive al-Assad come il “male assoluto”. Le sue presunte ricchezze personali e quelle della sua famiglia vengono messe in primo piano, ignorando però il contesto di un Paese devastato da tredici anni di guerra e da sanzioni asfissianti. Anche il recente terremoto, che ha aggravato ulteriormente le condizioni di vita della popolazione siriana, non ha portato ad alcuna revisione delle politiche sanzionatorie da parte degli Stati Uniti e dell’Europa.
Si trascura inoltre il fatto che la Siria, prima della guerra, era uno dei pochi Stati laici del Medio Oriente, dove cristiani e musulmani coesistevano in relativa armonia. Oggi, con l’avanzata di gruppi jihadisti, il futuro di questa pluralità religiosa è più che mai a rischio.
Tra i vari argomenti contro il governo siriano, spicca l’accusa di essere il principale produttore del Captagon, una droga che avrebbe finanziato il regime. Eppure questa stessa sostanza è stata utilizzata massicciamente dai gruppi jihadisti durante il conflitto per alimentare i combattenti. Lo stesso Captagon è stato definito “la droga dei jihadisti” già nel 2015, un dettaglio che sembra ora dimenticato nei reportage che accusano Damasco.
La vittoria di al-Qaeda in Siria, o meglio dei gruppi che ne derivano come Hayat Tahrir al-Sham, segue uno schema già visto in altri interventi occidentali. In Afghanistan, negli anni Ottanta, il traffico di oppio servì a finanziare i mujahidin contro l’Unione Sovietica, un modello riproposto in Libia nel 2011 dove l’intervento NATO ha finito per favorire milizie legate ad al-Qaeda. Come documentato da diverse fonti, tra cui analisti indipendenti, la ribellione libica era guidata da veterani islamisti, ma ciò non ha impedito agli Stati Uniti e ai loro alleati di sostenere militarmente il cambio di regime.
In Siria lo scenario si ripete. Al-Qaeda, inizialmente un nemico giurato dell’Occidente, è diventata un alleato di fatto nel processo di destabilizzazione del Paese. Gli stessi gruppi jihadisti che oggi celebrano la caduta di al-Assad sono stati armati e finanziati indirettamente tramite programmi segreti di supporto agli insorti.
Il destino della Siria si inserisce in un’agenda geopolitica delineata da tempo. Già nel 2001, dopo gli attacchi alle Torri Gemelle, l’ex generale americano Wesley Clark rivelò l’esistenza di un piano per “rimuovere sette Paesi in cinque anni”, iniziando dall’Iraq e passando per la Siria, il Libano, la Libia, la Somalia, il Sudan, fino all’Iran. Sebbene quel programma non abbia rispettato i tempi previsti, i suoi obiettivi sembrano ancora in corso.
La Siria oggi è un Paese smilitarizzato, con un apparato di difesa quasi del tutto distrutto da attacchi israeliani e americani condotti senza alcuna base legale, come denunciato dalle stesse Nazioni Unite. Israele, nel frattempo, continua a occupare territori siriani, sfruttando il caos per consolidare le proprie posizioni strategiche.
Con la caduta di al-Assad la Siria rischia di seguire il destino della Libia: uno Stato frammentato, preda di milizie e gruppi jihadisti in lotta tra loro. La destabilizzazione del Medio Oriente prosegue inesorabile, con Israele che guarda già all’Iran come prossimo obiettivo. La minaccia di Benjamin Netanyahu di colpire i siti nucleari iraniani, ora che le difese aeree siriane sono state messe fuori uso, lascia intravedere un’escalation futura.
L’Occidente, nel perseguire il suo progetto di “regime change” in Siria, ha forse vinto una battaglia tattica, ma a un prezzo strategico altissimo. La vittoria di al Qaeda e la frammentazione del Paese rappresentano una sconfitta per la stabilità regionale e per i valori che l’Occidente stesso dichiara di voler difendere. In questo contesto è lecito chiedersi se le scelte compiute negli ultimi anni siano davvero servite a promuovere pace e sicurezza, o se abbiano invece alimentato un caos che continuerà a produrre instabilità per decenni.