Siria. L’Unicef, ‘1.106 bambini uccisi nel solo 2018’

di C. Alessandro Maceri

1.106 bambini uccisi nei combattimenti in Siria, soltanto nel 2018. Si tratta del più alto numero in un solo anno dall’inizio della guerra. Ha darne notizia la direttrice generale dell’Unicef (Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia), Henrietta Fore.
Ma il loro numero potrebbe essere maggiore. La settimana scorsa il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è riunito a porte chiuse per valutare le ultime scoperte del sistema di controllo globale delle armi chimiche in Siria e, alla fine, pare abbia concluso che c’erano “fondati motivi” per parlare di attacco chimico durante la battaglia per il controllo della Ghouta orientale, ad aprile dello scorso anno. Il rapporto dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, Opcw, riporta che vi sono “ragionevoli motivi per cui l’uso di una sostanza chimica tossica come arma ha avuto luogo, il 7 aprile”. Non è un caso se la stessa Fore ha detto che “questi sono solo i numeri che l’Onu è stato in grado di verificare, ma le cifre reali sono probabilmente molto più alte”.
Come è avvenuto spesso nelle guerre, negli ultimi decenni, anche in Siria, la principale causa di morte tra i bambini è rappresentata dalle mine: lo scorso anno sono stati 434 i morti a causa di ordigni inesplosi detonati al passaggio di civili.
Le dichiarazioni rilasciate dal presidente degli Usa, Donald Trump e le notizie diffuse dai notiziari che mostrano i gruppi armati del Isis allo sbando, potrebbero far pensare che la guerra in Siria è finita. Non è così: ogni volta che in una paese in guerra si smette di sparare servono anni e anni prima di poter parlare di “pace”. E intanto a pagare il prezzo umano delle “missioni di pace” sono sempre le fasce più deboli: i bambini.
In Libano sono decine, centinaia di migliaia i minori nei campi profughi e per molti di loro non esistono servizi adeguati. Già nel 2016, un rapporto parlava di 36mila apolidi, nati da genitori profughi e irregolari in fuga dalla Siria. Per questi bambini non ci sono documenti, niente istruzione, nessuna assistenza sanitaria, niente di niente. Spesso neanche una nazionalità o una identità. Gli sforzi dei paesi ospitanti, prima di tutto Libano e Turchia, spesso sono vanificati dalle continue ondate di arrivi: migliaia di persone, uomini, donne ma soprattutto bambini per i quali il futuro è incerto che vanno ad affollare immense tendopoli ormai allo stremo. Eppure secondo alcuni loro sono i fortunati: loro sono ancora vivi, a differenza delle migliaia che hanno perso la vita in Siria senza neanche sapere perché.
La situazione non è diversa nello Yemen. Anche qui missioni di pace che finora sono servite solo ad aumentare il fatturato di poche centinaia di imprese produttrici di armi e armamenti hanno avuto come “effetto collaterale” di migliaia e migliaia di bambini. E anche di loro ha parlato, pochi giorni fa, Henrietta Fore quando, commentando la morte di cinque bambini nella città portuale yemenita di Hudaydah, ha ribadito che la guerra civile dello Yemen continua a chiedere un “pedaggio orribile” sui bambini. “Nello Yemen, i bambini non possono più fare tranquillamente le cose che tutti i bambini amano fare, come andare a scuola o passare il tempo con i loro amici fuori. La guerra può raggiungerli ovunque siano, anche nelle loro case”.
Anche nello Yemen, stando ai media internazionali, pare che la guerra, pardon la “missione di pace” volga ormai al termine: a dicembre, le parti in conflitto hanno firmato, sotto l’egida dell’Onu, un accordo (parziale) per il cessate il fuoco. Questo non ha impedito a cinque bambini di essere uccisi in un attacco al distretto di Tahita, a sud di Hudaydah. In media “ogni giorno, otto bambini vengono uccisi o feriti in 31 zone di conflitto attive nel Paese”, ha detto la Fore, “i colloqui e le conferenze hanno finora fatto ben poco per cambiare la realtà dei bambini sul campo”. La situazione in Yemen è stata commentata anche da Geert Cappelaere, direttore dell’Unicef per il Medio Oriente e il Nord Africa, che ha parlato di una “sconvolgente violenza” che non ha risparmiato un solo figlio. Le sue parole hanno preceduto di poco un evento, tenutosi a Ginevra, per reperire fondi per lo Yemen. Alla fine sono stati 26 miliardi di dollari le somme raccolte dall’Unicef per cercare di far fronte a quella che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres una “schiacciante calamità umanitaria”. Una calamità che nessuno, però, ha fatto molto per evitare.
Miliardi di dollari spesi per produrre armi che serviranno solo a far morire migliaia e migliaia di bambini senza risolvere i problemi dei paesi in cui sono nati. Altri miliardi di dollari per cercare di fornire aiuti che non basteranno alla maggior parte di questi bambini a curare le ferite inguaribili lasciate dalla guerra e dall’aver trascorso la propria infanzia in un paese afflitto dalla peggiore epidemia di colera e memori d’uomo o nei più grandi campi profughi del pianeta dove per i più fortunati casa significa una tenda due metri per due, sotto il caldo torrido dell’estate e il gelo dell’inverno spesso affrontato senza nessun tipo di riscaldamento. E altri miliardi che finiranno nelle tasche delle grandi aziende e multinazionali che si accaparreranno gli appalti per ricostruire, almeno in parte, i territori distrutti.
Miliardi di dollari che non riporteranno in vita i 1.106 bambini morti in Siria lo scorso anno. Né le migliaia di bambini morti nello Yemen dall’inizio della guerra. Uccisi, prima che dalle bombe e dal colera, dalla più totale indifferenza della maggior parte degli abitanti del pianeta.