
di Giuseppe Gagliano –
La narrativa sulla cosiddetta transizione siriana, celebrata in determinati ambienti come il passaggio verso una nuova era democratica, si scontra con una realtà ben più cruda. L’idea che la caduta del regime di Bashar al-Assad avrebbe inevitabilmente portato a un miglioramento delle condizioni del paese non trova riscontro nei fatti. L’ingresso dei jihadisti di Hay’at Tahrir al-Sham (HTC) a Damasco, nel dicembre 2024, è stato accompagnato da una retorica trionfalistica che ignorava del tutto le profonde contraddizioni di questa fase storica.
L’euforia con cui una parte dell’opposizione ha salutato l’affermazione di HTC riflette un preconcetto radicato: qualsiasi alternativa al Baath sarebbe stata un progresso. Un pensiero binario che non tiene conto della natura del nuovo regime, né degli atti di violenza che lo hanno accompagnato fin dall’inizio. Nei governatorati costieri, l’epurazione della comunità alawita ha causato oltre 1.300 morti, e i massacri di altre minoranze religiose sono passati sotto silenzio. Lo stesso Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, ha espresso nel dicembre 2024 “estrema preoccupazione per l’escalation delle ostilità nel nord-ovest della Siria”, descrivendo la situazione come “tragica”.
Nel linguaggio della diplomazia e della stampa occidentale il termine “transizione” è diventato una formula ripetuta meccanicamente. Ma se la parola indica un passaggio verso un sistema democratico e pluralista, allora in Siria essa appare priva di significato. L’assenza di un vero consenso nazionale e l’esclusione sistematica di intere comunità rendono impossibile parlare di progresso politico. I curdi, ad esempio, hanno rigettato la nuova leadership, definendola un’imposizione ideologica che non riflette la realtà sociale del paese. Al contempo, mentre si celebrava la “nuova pagina della storia siriana”, la società civile rimaneva intrappolata in un clima di terrore, consapevole che le nuove autorità non esiterebbero a reprimere ogni forma di dissenso.
Lungi dall’essere risolta, la guerra in Siria ha semplicemente cambiato volto. Lo scenario attuale ricorda la “guerra di tutti contro tutti” di hobbesiana memoria, con tensioni crescenti anche all’interno delle stesse fazioni vincitrici. Gli alleati di ieri diventano i nemici di domani, mentre le minoranze religiose vivono in un costante stato di paura. I cristiani e i drusi oscillano tra la fuga e la richiesta di protezione da attori esterni. Già nel dicembre 2024, alcuni villaggi drusi nel sud del paese avevano chiesto la protezione di Israele, considerandolo “il male minore” rispetto alla nuova realtà imposta dagli islamisti.
Nel frattempo, l’instabilità si estende anche alle aree urbane: a Homs, la popolazione alaouita è in preda al panico per possibili rappresaglie, mentre altre città vedono episodi di vendette private e saccheggi. L’affermazione di Ahmed al-Charaa non ha portato né pace né ordine, ma solo una nuova fase di conflitto e insicurezza.
La storia recente dimostra che i cambi di regime imposti dalle armi non portano automaticamente a un sistema stabile e inclusivo. Dal 1945, in 46 paesi che hanno vissuto rivoluzioni di questo tipo, il risultato è stato uno Stato fragile, permeato da instabilità e lotte di potere. Il leader di HTC, Ahmed al-Sharaa, ha promesso una nuova costituzione, ma già ora si intravede la volontà di concentrare il potere nelle mani di un’élite jihadista. Il richiamo alla sharia come “fonte principale” del diritto solleva interrogativi inquietanti sul futuro delle minoranze e dei gruppi laici.
Dal punto di vista storico sappiamo che molto spesso le vittorie dei ribelli spesso conducono a governi instabili e non inclusivi e di conseguenza la governance diventa sinonimo di sopravvivenza poiché i leader danno priorità al consolidamento del potere piuttosto che alla stabilità generale.Inoltre, questi governi tendono a usare il processo costituzionale per rafforzare il proprio dominio anziché costruire istituzioni che possano prevenire una nuova esplosione di violenza.
In definitiva, la Siria di oggi si trova intrappolata in un paradosso: una transizione che, nei fatti, non esiste. I sostenitori di questo processo continuano a descriverlo in termini ottimistici, ma la realtà sul campo suggerisce che il paese è lontano da una vera stabilizzazione. La transizione siriana è, per ora, solo un’illusione propagandistica destinata a scontrarsi con la dura legge della geopolitica.