Sudan. Al-Buhran chiude le relazioni con gli Eau, ‘supportano le Rsf’

di Giuseppe Gagliano –

La diplomazia si ritira, i droni avanzano. Il 6 maggio 2025 Khartum ha annunciato ufficialmente l’interruzione delle relazioni diplomatiche con Abu Dhabi. Una decisione che, al di là della forma, rappresenta l’esplosione di una crisi che cova da mesi nel silenzio complice della comunità internazionale. Il ministro della Difesa sudanese, Yassin Ibrahim, ha accusato apertamente gli Emirati Arabi Uniti di aver armato le Rapid Support Forces (RSF), la milizia paramilitare in guerra contro l’esercito regolare sudanese dal 15 aprile 2023. E lo ha fatto all’indomani di un’ondata di attacchi con droni contro Port Sudan, ultimo bastione del governo internazionalmente riconosciuto.
La denuncia sudanese non è una semplice mossa retorica. Ibrahim parla di “crimine di aggressione contro la sovranità nazionale”, indicando in Abu Dhabi il principale sponsor delle RSF, rifornite di “armi strategiche sofisticate”. Il richiamo dell’ambasciatore sudanese e la chiusura dell’ambasciata a Dubai sono solo il corollario diplomatico di una frattura ben più profonda: quella tra la sopravvivenza dello Stato sudanese e le manovre regionali dei petrostati del Golfo.
Mentre Abu Dhabi nega ogni coinvolgimento diretto, media indipendenti come Middle East Eye e Le Monde confermano l’esistenza di una rete logistica che collega gli Emirati alle RSF, attraverso rotte che passano per Libia, Ciad e Repubblica Centrafricana. Una triangolazione che ricorda troppo da vicino i vecchi metodi delle guerre per procura, mascherate da “interventi umanitari” o “sostegno alla stabilità”.
I fatti recenti rafforzano le accuse di Khartum. Per tre giorni consecutivi Port Sudan, una delle poche città ancora in mano all’esercito e considerata “zona sicura”, è stata colpita da droni. Sono stati presi di mira l’aeroporto internazionale, una centrale elettrica e persino un hotel civile. Tutti i voli sono stati sospesi. Non ci sono state rivendicazioni ufficiali, ma i generali sudanesi non hanno dubbi: dietro i raid ci sono le RSF.
Il generale Abdel Fattah al-Burhan, comandante dell’esercito regolare, è andato oltre: ha evocato l’“aggressione emiratina” come motore occulto della guerra. Le sue parole sono state seguite dall’annuncio di aver sventato un nuovo attacco alla più grande base navale del Paese. “I droni sono stati abbattuti con missili antiaerei”, ha riferito una fonte militare all’agenzia AFP. In gioco non c’è solo la tenuta militare di Port Sudan, ma la sopravvivenza di uno Stato travolto da una guerra civile devastante.
Il timing dell’annuncio sudanese non è casuale. Solo 24 ore prima, la Corte Internazionale di Giustizia aveva respinto la denuncia del Sudan contro gli Emirati, accusati di complicità in genocidio. Il tribunale si è dichiarato incompetente, evocando una riserva emiratina alla Convenzione sul genocidio. Un tecnicismo giuridico, ma anche una pesante sconfitta politica per Khartum, che ora gioca la carta diplomatica come strumento di pressione internazionale.
Sul campo, intanto, le RSF sembrano aver ripiegato sulla guerra asimmetrica. Dopo aver perso il controllo di Khartum lo scorso 27 marzo, i paramilitari di Dagalo puntano a colpire le linee logistiche dell’esercito. Port Sudan non è l’unico teatro del conflitto: anche Kassala, nell’Est, e Abu Shouk, nel Darfur occidentale, sono state colpite. Sei morti e venti feriti in un campo profughi: è l’ultima ferita di una guerra che ha già sfollato 13 milioni di persone e causato decine di migliaia di vittime.
Mentre l’Occidente tace e l’ONU lancia l’ennesimo appello, emerge con chiarezza il disegno geopolitico: il Sudan è diventato l’epicentro di una nuova “guerra ombra” tra potenze regionali. Gli Emirati, già coinvolti in Libia e Yemen, sembrano replicare il modello dell’interventismo indiretto, dove le armi si muovono in silenzio e le alleanze si stringono nelle retrovie.
In un mondo dove i confini si ridisegnano a colpi di droni e forniture occulte, la rottura tra Sudan e UAE è un segnale d’allarme. Non solo per l’Africa, ma per tutto l’ordine internazionale.