
di Giuseppe Gagliano –
Nel cuore devastato di Khartum, tra i muri sventrati e i quartieri ridotti in macerie, sventola di nuovo la bandiera nazionale sul palazzo presidenziale. Una vittoria, certo. Ma di quale portata, e soprattutto, a quale prezzo? La riconquista da parte delle Forze Armate Sudanesi (SAF) del simbolo più visibile dell’autorità statale rappresenta una svolta nella guerra civile che, dal 2023, lacera il Sudan. Per il governo e i suoi sostenitori è un trionfo, un segnale di riscossa dopo mesi in cui le Forze di Supporto Rapido (RSF) sembravano aver imposto la loro supremazia. Ma la realtà, come spesso accade in Africa, è più complessa di quanto non suggeriscano le immagini dei soldati vittoriosi.
Nel Sudan del 2025 il palazzo presidenziale è un monumento più alla memoria che alla sovranità. Il controllo di un edificio storico, per quanto significativo, non equivale al controllo del territorio o, ancor meno, del consenso. Khartum è in rovina, la popolazione è stata decimata, l’apparato statale è ridotto ai minimi termini. E mentre l’esercito celebra, le RSF rafforzano le loro posizioni nell’Ovest del Paese, costruendo le basi di un governo parallelo. Come in Libia, come in Yemen, il rischio della partizione de facto si fa ogni giorno più concreto.
Come spesso accade nei conflitti africani, ciò che avviene sul terreno è solo il riflesso opaco di dinamiche più vaste. Le RSF sono accusate di ricevere sostegno dagli Emirati Arabi Uniti e da elementi della galassia russa di Wagner. Le SAF, dal canto loro, beneficiano del sostegno, più o meno velato, dell’Egitto e di altri attori regionali. In mezzo, il popolo sudanese paga il prezzo dell’ambiguità e dell’impunità. Le accuse reciproche di crimini di guerra non fanno che rafforzare l’idea che la guerra, oggi, sia condotta senza limiti morali o strategici, ma solo per logoramento.
L’Unione Africana ha parlato chiaro: nessun riconoscimento per governi paralleli, nessun appoggio a spartizioni imposte con la forza. Ma le dichiarazioni, senza meccanismi efficaci di pressione, rischiano di rimanere lettera morta. Il Sudan, come l’Etiopia con il Tigray, rischia di scivolare verso una lunga e inestricabile guerra di posizione, dove il controllo di un palazzo vale meno dell’egemonia sul discorso politico.
Un elemento spesso trascurato è il ritorno sulla scena di alcuni dei protagonisti civili delle rivolte del 2019. La loro partecipazione alle celebrazioni dell’esercito solleva interrogativi: è una forma di alleanza tattica, oppure l’inizio di una nuova deriva autoritaria? I civili che chiesero libertà e democrazia sono oggi costretti a scegliere tra due opzioni militari, entrambe compromesse.
Il palazzo è stato riconquistato, ma Khartum resta in ginocchio. E con essa l’intero Sudan, sospeso tra la retorica della vittoria e la concretezza del disastro umanitario. In assenza di un vero processo di pace inclusivo, ogni conquista militare rischia di trasformarsi in un’illusione. La storia recente ci insegna che nei conflitti africani il simbolismo non basta. È il controllo della narrazione, più ancora che quello delle città, a determinare il futuro di un Paese.