Sudan. La balcanizzazione perfetta per il grande gioco delle potenze

di Giuseppe Gagliano

La possibile partizione del Sudan non è un incidente della storia né il frutto di un improvviso desiderio di autodeterminazione. È piuttosto il risultato di un lungo processo in cui si mescolano il fallimento degli attori regionali, l’interesse economico delle potenze straniere e il gioco pericoloso delle fazioni islamiste. Ancora una volta, dietro il caos, ci sono vincitori ben precisi.
La frammentazione del Sudan non è una novità. Già nel 2011, con l’indipendenza del Sud Sudan, la narrazione ufficiale parlava di un popolo che finalmente si emancipava da un governo oppressivo. Il risultato? Un Paese immediatamente precipitato nella guerra civile e diventato terreno di caccia per le compagnie petrolifere straniere. Oggi, il copione si ripete.
Se il Sudan si spacca di nuovo, i primi a trarne vantaggio saranno le potenze esterne, soprattutto gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e la Turchia, che hanno da tempo messo gli occhi sulle ricchezze del Paese. Gli Emirati sono accusati di aver fornito aiuti logistici e armi alle Rapid Support Forces (RSF), il gruppo paramilitare che controlla gran parte del Darfur e ha lanciato la sfida al governo di Khartoum. Per Abu Dhabi, le RSF sono un alleato strategico, utile per mantenere il controllo sulle rotte commerciali verso il Mar Rosso e limitare l’influenza dell’Egitto.
L’Egitto, dal canto suo, sostiene l’esercito regolare sudanese (SAF), temendo che un Sudan diviso possa rafforzare le forze islamiste e minare la sicurezza dei suoi confini meridionali. Il presidente al-Sisi ha interesse a mantenere il Sudan come cuscinetto strategico, ma non ha i mezzi per un intervento diretto.
Poi c’è la Turchia, che ha investito pesantemente in Sudan prima della guerra, soprattutto nella costruzione di infrastrutture portuali e nella cooperazione militare. Ankara potrebbe cercare di guadagnarsi una fetta dell’influenza, sfruttando le sue storiche relazioni con i gruppi islamisti sudanesi.
Infine ci sono le grandi potenze globali. La Cina, che importa petrolio sudanese e ha forti investimenti nel Paese, ha tutto l’interesse a mantenere un minimo di stabilità, ma senza esporsi troppo. Gli Stati Uniti, invece, potrebbero vedere nella partizione un modo per limitare l’influenza di Russia e Iran, che hanno da tempo legami con il regime di Khartoum.
La guerra in Sudan ha rianimato vecchi fantasmi. Non si tratta solo di un conflitto tra esercito e paramilitari: dietro le quinte, i gruppi islamisti hanno trovato nuova linfa. La brigata al-Bara ibn Malik, formata da veterani delle Forze di Difesa Popolari (PDF) legate all’ex dittatore Omar al-Bashir, è solo la punta dell’iceberg. In un Paese dove il jihadismo ha radici profonde, il rischio di un’Afghanistan africano è tutt’altro che remoto.
Per anni, il Sudan è stato un santuario per gruppi radicali, da al-Qaeda ai Fratelli Musulmani. La caduta di al-Bashir nel 2019 sembrava aver chiuso questa stagione, ma la guerra ha ridato spazio ai movimenti islamisti, che ora si presentano come difensori della nazione contro l’influenza straniera. Questo potrebbe attrarre finanziamenti da reti jihadiste internazionali e rendere il Sudan un nuovo epicentro del terrorismo africano.
Le RSF, nonostante la retorica laica e democratica, non sono immuni da questa infiltrazione. Molti dei loro comandanti hanno legami con movimenti islamisti, e il rischio che il Sudan diventi un terreno fertile per nuovi gruppi radicali è altissimo. La creazione di un governo parallelo nelle zone controllate dalle RSF non è solo un atto di sfida: è un tentativo di costruire un nuovo Stato su basi ideologiche pericolose.
Chiunque pensi che la comunità internazionale voglia realmente evitare la divisione del Sudan si illude. Un Paese frammentato è un Paese debole, e un Sudan debole è più facile da sfruttare, sia economicamente che militarmente. La retorica sulla pace e sulla stabilità nasconde la realtà: chi ha interesse a un Sudan forte e indipendente? Nessuno.
L’Unione Africana lancia allarmi, l’Unione Europea si dice preoccupata, l’ONU minaccia sanzioni. Ma alla fine, il destino del Sudan sarà deciso altrove. E, come sempre, a pagarne il prezzo saranno i sudanesi.