Sudan. La crisi dimenticata

di Giovanni Caruselli –

Concentrata sulle vicende dei conflitti prossimi all’Europa, l’opinione pubblica non dedica molto spazio alle guerre feroci che si combattono in aree non lontanissime dal Vecchio Continente. In Sudan si combatte da circa vent’anni fra due fazioni che non hanno altro scopo se non la conquista del potere. Da una parte le forze armate sudanesi propriamente dette, guidate al generale capo di Stato Abdel Fattah al –Burhan (SAF), dall’altra le Rapid Support Forces (RSF), corpi paramilitari al comando di Mohamed Hamdan Dagalo. Le due parti si erano impegnate negli anni passati nella stabilizzazione del Paese, minacciato da due colpi di Stato, poi a partire dall’aprile del 2023 la diffidenza fra le due formazioni, alimentata dall’intenzione della RSF di entrare a far parte della SAF, cioè dell’esercito regolare, era cresciuta fino a ripetuti scontri nella zona della capitale.
A causa della guerra, della carestia determinata dall’abbandono dei campi, e della criminalità comune la situazione nel Paese è disperata. 10 milioni di civili migrano in diverse direzioni verso Egitto, Ciad, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan ed Etiopia, e almeno 15mila sono le vittime degli scontri armati. A ciò si aggiunge la pulizia etnica ad opera del RSF contro le popolazioni non arabe nella martoriata regione del Darfour. Le istituzioni internazionali tardano a intervenire in maniera decisa sull’area del conflitto. La Conferenza di Parigi dell’aprile 2024 per il momento non ha inciso sulla situazione, sia per le lungaggini degli stanziamenti, sia per il peggioramento della situazione sul campo e la scarsità degli aiuti umanitari.
Secondo fonti accreditate in questo momento circa 755mila persone sono a rischio di morte per fame, benché comitati civici cittadini e organizzazioni volontarie giovanili si diano da fare per portare attorno a un tavolo le parti estremamente frammentate dei due fronti e arrivare almeno a una pace provvisoria nel Paese.
La RSF, che ha il controllo delle miniere d’oro del Sudan, fin dall’inizio ha usufruito dell’aiuto delle milizie del gruppo Wagner agli ordini della Russia che ha fornito armi e assistenza militare. Il Cremlino è interessato soprattutto alla realizzazione della base navale di Port Sudan nell’area strategica del Mar Rosso, che si aggiunge ad altre due operanti in Siria e in Libia, in ordine al secolare sogno di Mosca di affermarsi anche come potenza mediterranea. Ma non solo di questioni geopolitiche si tratta. Il Sudan è il terzo maggior produttore di oro del continente africano. Buona parte dell’oro estratto viene contrabbandato e riciclato illegalmente all’estero. La guerra in Ucraina ha fatto crescere a dismisura le necessità russe di metalli pregiati e le enormi miniere sudanesi sono da tempo nel mirino dei diplomatici del Cremlino. Il mercato dell’oro creatosi in quest’area ha diverse destinazioni fra le quali la più importante è costituita dagli Emirati Arabi Uniti che ne acquistano tre miliardi di dollari l’anno. Dubai è accusata di gestire il traffico di armi e di mercenari diretti in Libia, Mali e Repubblica Centrafricana, nel quadro della politica di influenzamento del continente nero della Russia. Per tale ragione la Kratol Aviation, che ha sede a Dubai è stata inclusa nella lista delle industrie sanzionate dagli Usa.
Il tema del traffico dell’oro rende difficile la strada del raggiungimento della pace. Le potenze occidentali si trovano di fronte a gruppi armati le cui intenzioni sono indecifrabili e quindi si astengono dal sostenere una delle due parti in causa. La posizione geografica del Sudan è cruciale se si considera che esso collega l’area del Sahel con il Medio Oriente e si affaccia sul Mar Rosso, la cui importanza è nota. La popolazione civile, come sempre, paga il prezzo degli scontri geopolitici.