Sudan. Un 2017 oltre le attese

di Valentino de Bernardis –

Dopo molti anni di ibridismo politico, istituzionale ed economico, caratterizzati da guerre civili più o meno ufficiali, e dalla creazione di un cordone sanitario, il 2017 può essere annoverato certamente un anno di svolta per il Sudan.
Nonostante i poco chiari rapporti con alcune frange del terrorismo internazionale, specialmente di matrice religiosa, il rinnovato dinamismo politico e diplomatico del presidente-dittatore Ahmad al-Bashir ha iniziato a dare qualche frutto concreto. Insperato fino a pochissimi mesi fa. Con il supporto di un quadro geopolitico in perenne evoluzione, il Sudan è tornato infatti ad essere un partner politico-economico ambito da molti governi.
Alla porta del governo di Khartum si sono presentati per primi i diplomatici sauditi, per verificarne la fedeltà, e portarlo senza esito dalla loro parte nel confronto tutto interno al mondo musulmano con l’Iran.
Poi è stato il tempo degli Stati Uniti, caratterizzati da una sempre poco chiara agenda africana, che nel mese di ottobre, dopo oltre sedici mesi di trattativa, hanno posto fine alle ventennali sanzioni, imposte durante la seconda amministrazione Clinton.
Ultima, ma solo in ordine cronologico, la Turchia, con la visita ufficiale del presidente Recep Tayyp Erdogan a fine dicembre, nella quale sono state poste le basi per una lunga cooperazione economico-militare tra i due paesi, con la firma di accordi bilaterali per la lotta al terrorismo, alla presenza militare turca nelle acque territoriali sudanesi del Mar Rosso e la concessione allo sfruttamento dell’isola di Sawakim ufficialmente per lo sviluppo commerciale e turistico. Un 2017 certamente proficuo, almeno in politica estera.
In politica interna invece la situazione rimane difficile, sebbene con qualche impercettibile miglioramento, o per dire meglio, non peggioramento. Rinfrancato dal sostegno di importanti attori esteri, al-Bashir ha continuato ad usare il pugno di ferro per il mantenimento dello status quo, come testimoniato, ad esempio il 30 dicembre Khartum con la proclamazione dello stato di emergenza per sei mesi per i wilaya del Kordofan Settentrionale e Kassala.
Con quest’ultimo decreto è salito così a nove su diciotto il numero di wilaya in cui è in vigore lo stato di emergenza, come a dire di un paese sull’orlo della disgregazione, o perlomeno di difficilissima gestione. Andando ad analizzare la situazione attualmente in essere, da una parte abbiamo i cinque stati del Darfour, per cui lo stato di emergenza è collegato al conflitto ufficialmente ancora in corso nonostante la tregua raggiunta, dall’altro gli stati di confine del Nilo Azzurro (con l’Etiopia) e Cassala (Eritrea) per cui il decreto dovrebbe facilitare la lotta al traffico illecito di armi, droga ed esseri umani. Mentre per quanto concerne gli stati centrali (Kordofan Settentrionale e Meridionale) la mano ferma di Khartum dovrebbe facilitare e velocizzare il disarmo dei gruppi armati ancora presenti nella regione.
Nonostante le diverse motivazioni di carattere politico-istituzionale addotte dal governo centrale, non ultima quelle intraprese dal ministro delle finanze Abdel-Rahman Dirar, la realtà potrebbe essere ben diversa. In un paese dilaniato da guerre civili sotterranee, forti tensioni etniche e una perdurante crisi economica, la gestione autoritaria del potere è solo un mezzo per soffocare sul nascere ogni potenziale rischio di rivolta. Evitare cioè quello che accadde nel 2016, quando a seguito di misure di austerity la popolazione scese in piazza dando vita a violente rivolte sedate con l’uso della forza.
Cosa ci sarà adesso da attendersi dal 2018? Realisticamente molto meno di quello ottenuto nel 2017. Il raggiungimento di una vera pacificazione nazionale duratura è difficile da raggiungere, e forse non è il vero obiettivo di al-Bashir, a cui sarebbe richiesto di fare troppe concessioni all’opposizione. Concessioni che di certo non vuole fare.

Le opinioni espresse in questo articolo sono a titolo personale.
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