di Giuseppe Gagliano –
Il 16 maggio, in un clima segnato da tensione crescente, il presidente di Taiwan Lai Ching-te ha visitato le forze armate a Kaohsiung per spronarle e ringraziarle pubblicamente. Ma non è stata una semplice celebrazione di routine. L’ombra delle esercitazioni militari cinesi, potenzialmente in programma per la settimana successiva, incombe sul primo anniversario del suo insediamento alla guida dell’isola, fissato per il 20 maggio.
Secondo fonti governative taiwanesi citate da Reuters, non si può escludere che Pechino scelga proprio questa ricorrenza simbolica per mostrare i muscoli e alimentare l’instabilità, attraverso una nuova serie di manovre militari nelle acque e nei cieli attorno a Taiwan. L’avvertimento non è infondato: lo scorso aprile la Cina ha già condotto l’esercitazione “Strait Thunder-2025A”, che segue la logica seriale delle precedenti “Joint Sword – 2024A” e “Joint Sword – 2024B”, indicativa di una pianificazione militare articolata e a lungo termine.
Durante il suo intervento presso la base navale di Zuoying, Lai ha definito le unità di ingegneria militare e quelle anti-sottomarino della marina “colonne portanti” della difesa nazionale. Un linguaggio sobrio, patriottico, privo di riferimenti diretti alla Repubblica Popolare Cinese, ma carico di significati impliciti. Accanto a lui, il ministro della Difesa Wellington Koo e il segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale Joseph Wu: un segnale plastico dell’unità del vertice politico e militare taiwanese.
La reazione di Pechino non si è fatta attendere. Il 14 maggio, il Ministero della Difesa cinese e l’Ufficio per gli Affari di Taiwan hanno bollato Lai come “fautore di crisi”, accusandolo di intensificare il confronto nello Stretto. Il leader taiwanese ha più volte ribadito che solo il popolo dell’isola ha diritto di decidere il proprio destino, e ha rifiutato ogni rivendicazione sovrana della Cina, definendo Taiwan una democrazia “pienamente indipendente”.
Toni da guerra fredda asiatica, che trovano un corrispettivo sul terreno: il 12 maggio, l’esercito taiwanese ha condotto il primo test operativo con il sistema HIMARS fornito dagli Stati Uniti. Un’esercitazione simbolica e sostanziale. I razzi ad alta mobilità, già usati in Ucraina contro la Russia, sono capaci di colpire obiettivi nella provincia cinese del Fujian, sull’altra sponda dello Stretto.
Taipei ne ha ordinati 29 da Lockheed Martin, 11 dei quali sono già stati consegnati. Il test, effettuato presso il centro di addestramento Jiupeng, arriva a 24 ore da una nuova “pattuglia di prontezza al combattimento” cinese — un’altra delle operazioni miste aeree e navali che la Repubblica Popolare utilizza per saturare la sorveglianza taiwanese e testarne la resilienza.
Le esercitazioni, le dichiarazioni e i movimenti tattici attorno all’isola raccontano una realtà fatta di frizione permanente e competizione strategica. La Cina mantiene il ritmo delle provocazioni. Taiwan risponde con prudenza ma si arma. Gli Stati Uniti osservano, incoraggiano e forniscono tecnologie belliche, pur senza legami diplomatici ufficiali con l’isola.
La guerra per ora resta ipotetica. Ma ogni anniversario, ogni esercitazione e ogni test missilistico sono tasselli di una scacchiera sempre più instabile, dove la partita tra sovranità e deterrenza potrebbe sfuggire al controllo.