di Giuseppe Gagliano –
Il Ministero della Difesa di Taiwan ha lanciato un nuovo e preoccupante allarme: la Cina sta intensificando in modo sistematico le attività militari attorno all’isola, mentre porta avanti una sofisticata campagna di guerra ibrida. Non si tratta di semplici provocazioni, ma di un approccio strategico calcolato per logorare la sicurezza e la coesione interna di Taipei. Secondo il rapporto biennale pubblicato il 9 ottobre, Pechino sta potenziando la capacità di lanciare un attacco a sorpresa, moltiplicando le operazioni nella “zona grigia” con mezzi civili e militari, tra cui pattuglie costiere, navi di copertura civile, palloni di sorveglianza e sabotaggi dei cavi sottomarini.
In parallelo le campagne di disinformazione online puntano a erodere la fiducia dei cittadini taiwanesi nelle istituzioni. Per contrastare questa pressione multidimensionale, Taipei sta rafforzando la difesa anti-drone e aumentando la capacità di reazione rapida, in particolare sulle isole periferiche, dove si addestrano i reparti scelti.
Secondo le analisi di Geopolitical Monitor, la strategia di Pechino non mira a una guerra convenzionale distruttiva, ma a una forma di “guerra senza danni”, finalizzata a costringere l’isola alla resa sotto la copertura di un’unificazione “pacifica”. La dottrina si articola in cinque fasi: sabotaggio delle infrastrutture critiche, guerra cognitiva e disinformazione, attacchi cibernetici e fisici combinati, accerchiamento militare e sovversione politica. Episodi recenti, come il sabotaggio dei cavi Matsu e le campagne di fake news durante le elezioni del 2024, ne offrono un’anteprima concreta. L’obiettivo è logorare la capacità di resistenza taiwanese e preservare al contempo l’integrità economica dell’isola, vista da Pechino come risorsa strategica.
Come sottolineato da Foreign Affairs, la risposta di Taiwan non si limita all’ambito militare. Taipei ha adottato una strategia globale di “resilienza difensiva della società”, fondata su tre pilastri: rafforzamento delle forze armate, infrastrutture resilienti e coesione sociale. A luglio, la maxi esercitazione Han Kuang ha visto la mobilitazione di oltre 20.000 riservisti, carri armati nelle strade urbane e simulazioni di attacchi a infrastrutture vitali, compresi ponti e attraversamenti fluviali strategici. La difesa civile è stata pienamente integrata: parcheggi e stazioni della metropolitana trasformati in rifugi antiaerei, scuole e centri civici riconvertiti in centri medici e logistici, ONG e forze di polizia coinvolte nella gestione delle emergenze.
Per la prima volta l’intera popolazione è stata chiamata a partecipare attivamente a una simulazione di guerra su vasta scala. La reazione è stata sorprendentemente matura: niente panico, ma consenso diffuso per una strategia che punta a rendere un’eventuale aggressione estremamente costosa per Pechino.
La nuova postura difensiva di Taiwan si colloca in un contesto regionale ad alta tensione. Nel Mar Cinese Meridionale la competizione militare si intensifica, mentre gli Stati Uniti d’America rafforzano la loro presenza navale nell’Indo-Pacifico per contenere la proiezione di potenza cinese. Gli analisti sottolineano che la combinazione di attacchi informatici, disinformazione e uso crescente di intelligenza artificiale nella propaganda è parte integrante di una strategia cinese a lungo termine, tesa a indebolire Taiwan dall’interno prima di un eventuale sbarco.
L’accordo firmato lo scorso febbraio tra Taipei e Washington da 761 milioni di dollari per rafforzare la difesa aerea e l’annuncio di un aumento della spesa per la difesa dal 3% al 5% del PIL sono segnali inequivocabili della volontà taiwanese di prepararsi a un conflitto prolungato e multidimensionale.
La sfida per Taiwan non è più solo territoriale: è geopolitica, tecnologica ed economica. Pechino punta a piegare l’isola senza distruggerla, trasformandola in un avamposto strategico per la sua proiezione nell’Indo-Pacifico. Taipei risponde rafforzando la cooperazione con gli alleati e costruendo una difesa “totale” che unisce tecnologia, coesione sociale e deterrenza militare. Sullo sfondo, si gioca una partita globale che potrebbe ridefinire l’equilibrio strategico dell’Asia orientale.












