di Giuseppe Gagliano –
La Tanzania, per decenni considerata un’isola di relativa stabilità nel turbolento mosaico africano, è oggi scossa da un’ondata di violenza politica che ricorda i peggiori momenti delle dittature del continente. Le accuse lanciate dall’opposizione, secondo cui le forze di sicurezza avrebbero nascosto centinaia di corpi di manifestanti uccisi, delineano un quadro agghiacciante di un Paese dove la democrazia è ridotta a pura facciata. Le elezioni del 29 ottobre, vinte con oltre il 97% dei voti dalla presidente Samia Suluhu Hassan, prima donna alla guida della Tanzania, hanno segnato non un consolidamento istituzionale, ma una regressione autoritaria.
L’opposizione è stata sistematicamente neutralizzata: Tundu Lissu, leader del partito Chadema, incarcerato per tradimento; altri candidati, come Luhaga Mpina, esclusi dalla corsa elettorale; i loro sostenitori, perseguitati o costretti alla fuga. La notte delle elezioni, le proteste di migliaia di giovani che chiedevano un voto libero sono state represse con armi da fuoco, lacrimogeni e coprifuoco. Secondo Chadema, almeno un migliaio di morti. Le testimonianze di Human Rights Watch e della Chiesa cattolica parlano di “centinaia di vittime” e di corpi fatti sparire per cancellare le prove. Una strategia del silenzio che svela la trasformazione delle forze di sicurezza in strumenti personali del potere esecutivo.
La presidente Hassan, nel suo discorso d’insediamento, ha parlato di “unità nazionale” e di “ritorno alla normalità”, ma lo ha fatto in un Paese paralizzato dal terrore. La sua rielezione, celebrata in un luogo chiuso e sotto stretta sorveglianza, mostra l’isolamento di un potere che teme il suo stesso popolo. Il riferimento a “manifestanti provenienti da altri Paesi” serve solo a giustificare la repressione interna con la retorica dell’ingerenza esterna, uno schema classico delle autocrazie africane per delegittimare l’opposizione.
La reazione africana è stata timida, quasi complice. I leader di Mozambico, Zambia, Burundi e Somalia hanno presenziato al giuramento della presidente, in nome della “stabilità”. Ma dietro quella parola si nasconde un calcolo geopolitico: evitare che la crisi tanzaniana contagi l’Africa orientale, già attraversata dalle guerre del Congo e dalle tensioni in Etiopia. L’unico gesto concreto è arrivato dal Kenya, che ha chiesto “dialogo” mentre il valico di Namanga rimaneva chiuso e i camion carichi di prodotti agricoli marcivano alle frontiere. L’Unione Africana, come spesso accade, ha scelto la prudenza, lasciando che fosse la società civile a denunciare le violenze.
Sul piano economico, la Tanzania rischia di pagare un prezzo altissimo. Le restrizioni alla comunicazione, il blocco di internet per sei giorni, la chiusura delle università e il coprifuoco nazionale hanno paralizzato il commercio e fatto fuggire investitori esteri già diffidenti verso l’instabilità politica. Il governo cerca di proiettare un’immagine di controllo e continuità, ma l’apparato produttivo, dai porti di Dar es Salaam alle miniere interne, funziona oggi a intermittenza. La repressione non è solo un atto politico: è anche un suicidio economico.
La crisi tanzaniana rivela la fragilità di un intero modello africano di democrazia elettorale senza alternanza. Le elezioni esistono, ma servono a legittimare chi è già al potere; le istituzioni funzionano, ma per reprimere, non per proteggere. La Tanzania, che sotto Julius Nyerere aveva incarnato l’idea di un socialismo africano moderato e di una politica inclusiva, è oggi un laboratorio del controllo autoritario sotto forma legale.
Le minacce agli utenti di internet, accusati di “tradimento” per aver condiviso foto delle vittime, mostrano che il vero nemico del regime non è l’opposizione politica, ma la verità. Il potere si difende negando l’evidenza, oscurando le immagini e criminalizzando l’informazione. In questo clima, anche la religione e le organizzazioni civiche vengono ridotte al silenzio, in nome della “sicurezza nazionale”. È il ritorno del Leviatano africano, che governa non attraverso il consenso, ma attraverso la paura.
L’Africa orientale ha visto molti cicli di violenza e oblio. Ma la tragedia tanzaniana di queste settimane impone una riflessione più ampia: senza giustizia e trasparenza, nessuna pace è possibile. Samia Suluhu Hassan ha promesso di “unire il Paese”. Potrà riuscirci solo se accetterà di guardare in faccia i morti che oggi le sue stesse forze cercano di nascondere. Perché nessun potere, per quanto solido, può durare su fosse comuni e silenzi imposti.












