Tibet. Nuova legge chiude il corridoio umanitario attraverso il Nepal

Alto il numero dei tibetani che continuano ad immolarsi per protestare contro la repressione cinese.

di Gianni Sartori

Anche considerando soltanto l’ultimo decennio, è difficile tenere il conto esatto di quanti tibetani, soprattutto monaci e monache, si siano immolati col fuoco per protestare contro l’occupazione cinese e la repressione sia religiosa che culturale messa in campo da Pechino.
Dopo Thupten Nogodup (nel 2008) e Tapey (nel 2009), sarebbero stati altri 165 i tibetani immolatisi fra le fiamme.
In genere la notizia di tali atti di protesta per la politica repressiva di Pechino (in particolare contro la chiusura dei monasteri) rischia di passare inosservata. Nel 2013 la stampa aveva ricordato quello che in quattro anni era il 114mo tibetano siucidatosi: si trattava di Kunchok Tenzin, un giovane monaco di 28 anni, il quale si era immolato nella contea di Luchu (Luqu in cinese), nella provincia del Gansu. Era il terzo in soli tre giorni.
Contemporaneamente veniva confermato il decesso per auto immolazione di Tulku Athup (47 anni) e di sua nipote Atse, una religiosa di 25 anni. La loro scomparsa, legata presumibilmente alla ventilata chiusura del monastero di Dzogchen, risaliva all’anno precedente (aprile 2012), ma fino ad allora era rimasta celata.
Sempre nel 2012, in gennaio, aveva suscitato un certo scalpore il suicidio di Nyage Sonamdrugyu, conosciuto come “Sopa” e considerato un “reincarnato” (lama). Il 15mo in dieci mesi. Come riferiva l’agenzia di stampa Xinhua, il corpo inizialmente era stato trattenuto dalla polizia e restituito alla famiglia soltanto dopo una dura manifestazione di protesta della popolazione.
Nyage Sonamdrugyu si occupava della gestione di un orfanotrofio a Darlang. Prima di suicidarsi era salito su un monte per pregare annunciando che il suo gesto non era “per la sua gloria personale ma per il Tibet”. Sempre nel gennaio 2012 veniva confermata la morte di un monaco nel monastero di Kirti e contemporaneamente un altro episodio in cui, se pur con gravi ustioni, il monaco era sopravvissuto.
All’epoca, considerando da quando nel marzo 2011 un monaco si era immolato a Kirti, erano già 14 i suicidi di protesta documentati.
Come aveva fatto con ogni altra forma di contestazione, così il regime cinese ha represso duramente anche tale suicidio di protesta classificandolo come “atto di terrorismo”. Reato che colpisce non solo l’eventuale sopravvissuto al tentativo, ma la sua stessa famiglia. In alcuni casi, oltre che severamente rimproverati e umiliati, i familiari sono arrestati e condannati in maniera pesante come dei criminali.
L’ultimo caso di auto immolazione, almeno tra i documentati, è stato quello un giovane ex monaco, Yonten, alla fine dell’anno scorso nella città di Ngaba (regione di Amdo). Yonten era deceduto il 27 novembre 2019 per le gravi ustioni riportate. Stando alle dichiarazioni dei monaci di Dharamshala, il suo gesto era un grido di dolore per la repressione imposta al Tibet occupato dalla Cina. Particolare straziante, Yonten proveniva da una famiglia molto povera di nomadi e avrebbe lasciato la veste per essere di sostegno ai genitori. D’altra parte è anche ben noto che spesso le autorità cinesi costringono i monaci con la forza ad abbandonare i monasteri.
Alla fine di gennaio, nel corso di un ricevimento, il presidente cinese Xi Jinping aveva dichiarato che “da oggi alla metà di questo secolo, il popolo cinese si adopererà per costruire la Cina in un grande paese socialista moderno (…). Sarà una grande era in cui verrà scritto un nuovo splendido capitolo della civiltà cinese. Ogni cinese deve sentirsi orgoglioso di vivere in un’era così grande”.
Tempi duri si prospettano quindi per le cosiddette minoranze tra cui tibetani, uiguri e mongoli, a cui la Cina non sembra voler attribuire un ruolo dignitoso nel prospettato “glorioso obiettivo del ringiovanimento nazionale”. Ottenendo anche una parziale collaborazione da parte di Kathmandu nella repressione della popolazione tibetana. Nell’ottobre scorso il primo ministro nepalese Sharma Oli, impegnandosi nel consolidare l’amicizia bilaterale, aveva cofirmato 18 documenti di cooperazione con la Cina. Per il momento Pechino non ha strappato a Kathmandu un vero e proprio trattato di estradizione, per lo meno non retroattivo, per i 20mila richiedenti asilo che si trovano in Nepal. Ma tali accordi non mancheranno di rendere la vita alquanto difficile sia per quelli presenti in Nepal, sia per i tibetani che cercano di attraversare il paese per rifugiarsi in India.
La notizia risale al 23 gennaio: Nepal e Cina avrebbero amichevolmente concordato di riconsegnare alla nazione di appartenenza i cittadini che “attraversano illegalmente” i rispettivi confini.
Una clausola, rimasta precedentemente segreta, stabilisce che “i rappresentanti di confine o le autorità competenti di entrambe le parti indagano sui casi di persone trovate che attraversano illegalmente la frontiera accertando la loro identità, fatti e motivi transfrontalieri, ed appena possibile li consegnano alle autorità del lato in cui si trovavano prima di attraversare il confine, entro sette giorni dal momento in cui sono i detenuti”. Viene così meno quel tacito accordo umanitario (gentleman agreement) tra Nepal, India e UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) secondo il quale ai tibetani in fuga veniva garantito un “corridoio umanitario” permettendo loro di varcare i confini per recarsi a Dharamsala, in India.
Quanto alle norme per una maggiore uniformità etnica recentemente votate e adottate nella Regione automa tibetana, riecheggiano apertamente quelle introdotte dal 2016 in Xinjiang (Uiguristan o Turkestan orientale, la regione abitata dagli uiguri). Come è noto furono propedeutiche ad un ulteriore inasprimento repressivo.
Consentendo a Xi Jinping di affermare tranquillamente che “chiunque tenterà di dividere la Cina in qualsiasi parte del paese finirà con corpi schiacciati e ossa in frantumi”.
Forse nel suo intervento di gennaio Xi Jinping aveva scordato di precisare che quel tipo di socialismo (in realtà capitalismo di Stato) rispecchia piuttosto un già visto e noto “socialismo da caserma”. Quello nei cui confronti non aveva mai smesso di inveire, anche dal fondo della galera stalinista, il comunista libertario Victor Serge. Ossia “il socialismo di tutti i mezzi sono buoni”, che fu e rimane “quello degli imbecilli e dei corrotti”.